lunedì 17 gennaio 2011

C'era una volta (c'era veramente!) il Paese dei Balocchi..









L'inverno per moltissimi motociclisti (me compreso..) rappresenta quel periodo dell'anno da dedicarsi alla modifica e alla preparazione della propria motocicletta. Durante la stagione infatti chi guida una moto ha la possibilità di capirne pregi e difetti a livello dinamico (a livello estetico, de gustibus..) e cercare di capire come esaltarne i primi ed eliminare o per lo meno limitare i secondi. Oggi i cataloghi di parti di ricambio e di parti speciali per le moto offrono una scelta pressoché illimitata.. in pratica basta avere dei soldi da spendere! Le Case stesse si sono accorte di questa tendenza e giustamente hanno capito che sarebbe stata una grave lacuna per loro non approfittarne tanto che, nei listini pezzi delle varie Case, si trovano una infinità di parti speciali in aggiunta ai vari optional, dedicati ai vari modelli. Sempre più spesso inoltre le Case mettono in produzione (e quindi in vendita) esemplari già modificati o particolari allestimenti di alcuni modelli in listino, in modo da offrire al cliente la possibilità di scelta tra un modello “base” e un modello “racing”. Per fare due esempi su tutti di questa tendenza basti citare la Suzuki GSR600 che viene proposta anche in versione Yoshimura. La moto in questione esce già dalle concessionarie con i terminali di scarico prodotti dalla famosissima Casa di elaborazione, con diversi particolari in ergal (pedane, leve..) e con una livrea decisamente più aggressiva di quella standard. Il secondo esempio può essere la “stilosissima” Moto Guzzi V7 racer, anch'essa una bella rivisitazione in chiave racing old style della già retròV7 classic. Chi ha la possibilità di spendere, in genere per avere una special si rivolge ad uno dei tantissimi tuner che sono diffusi a macchia d'olio su tutto il territorio nazionale. In questa maniera si ha la garanzia di possedere e guidare una special unica al mondo e dalla realizzazione sopraffina. In molti però (come il sottoscritto) preferiscono eseguire i lavori personalmente o nell'officina di fiducia, trasformando la loro moto grazie a particolari aftermarket o addirittura, nel caso dei più bravi, di propria realizzazione. La fantasia di certo non manca a chi vuole modificare la propria motocicletta! In genere i primi particolari ai quali si mette mano sono specchietti, frecce e porta targa. Da questa prima elaborazione “base” si passa in genere ad installare il “pacchetto completo”: impianto di scarico, filtro aria e centralina. Spessissimo (per fortuna) si sostituiscono i tubi dei freni originali in gomma, con altri più performanti in treccia aeronautica. A questa modifica si fa seguire la sostituzione delle “pasticche dei freni” con altre che garantiscono un maggior mordente e per ultimo si sostituisce l'olio dell'impianto, magari con un DOT 5.1. A ruota della modifica all'impianto frenante si esegue in genere anche una miglioria del reparto sospensioni o per lo meno della sola forcella. Tutte le moto moderne hanno sia la forcella che il mono ampiamente regolabili. Chi comunque non dovesse trovare la “sua regolazione” modifica anche queste ultime. Gli interventi che si fanno di solito prevedono la sostituzione di molle, pompanti e si inserisce un olio dalla maggiore viscosità. Il mono posteriore rappresenta una spesa non indifferente e spesso prima di sostituirlo con uno più racing si lavora all'inverosimile al fine di trovare la regolazione più adatta al proprio stile di guida e alle proprie esigenze. La sua sostituzione generalmente viene attuata dai motociclisti più smaliziati ed in grado di mettere veramente in crisi quello di serie. Quelli che cercano ancora qualcosa in più dalla loro motocicletta, andranno anche a sostituire le pedane poggia piedi di serie con altre più arretrate in modo da assumere una posizione più “caricata in avanti” sulla moto oltre che ad aumentare la luce a terra della stessa. Questa modifica, soprattutto se si possiede una naked va di pari passo con la sostituzione del manubrio originale e dei suoi riser, con uno più basso per ottenere l'effetto prima descritto. Fatte queste modifiche si passa alla categoria superiore: installare un cambio a controllo elettronico, sostituire i cerchi con una coppia di più leggeri, la frizione antisaltellamento, lucidatura dei condotti, sostituzione delle cammes e ancora bielle, albero motore ecc ecc ecc sino ad arrivare al “big bore” ma qui, come si suol dire, siamo già “un bel pezzo avanti coi lavori”. Come sopra descritto, al giorno d'oggi il limite all'elaborazione di una moto lo da solamente il portafogli. Ad esso però ultimamente si è unito anche il codice della strada! Le norme che regolamentano in materia si sono infatti duramente inasprite e chi viene pizzicato con la moto dotata di impianto di scarico dalla voce un po' troppo “esuberante” o anche semplicemente del porta targa un po' troppo orizzontale rischia sanzioni e addirittura il ritiro della carta di circolazione. Le cose però non sono sempre andate in questa maniera. Esiste un periodo storico ossia i “fantastici Seventies” che sono stati gli autentici “Golden Years” per quanto concerne le elaborazioni sia a livello di esecuzione quanto a livello di assoluta libertà nel poterle effettuare senza correre il rischio di “andare direttamente in galera (o alla motorizzazione civile..) e senza passare dal via!”. All'inizio degli anni settanta, così come un'enorme onda anomala dalla prorompente forza d'urto, le case giapponesi si affacciarono sul mercato italiano ed europeo. Una vera rivoluzione che lasciò tutti senza fiato: dai motociclisti con la manetta facile agli addetti ai lavori, tutti. Le prime prove su strada proiettavano in un fantastico mondo dei balocchi, dove un prestigiatore dagli occhi a mandorla estraeva dal suo cilindro novità a getto continuo e non smetteva mai di stupire. Le moto nipponiche erano veloci, cromate, non trasudavano olio, avevano (quasi tutte) l'avviamento elettrico, erano affidabili e colpivano diritto al cuore gli appassionati, in eterna adorazione di fronte alle varie Kawasaki Mach III e Mach IV, Z 900, Honda Four e Suzuki GT. Ma poi qualcuno iniziò a portarle in pista o sui tornanti di montagna e qui iniziarono i problemi. Le moto del Sol Levante avevano dei propulsori esuberanti che erano però abbinati a ciclistiche dal comportamento drammatico! La Kawasaki Mach IV era un toro infuriato: nelle accelerazioni più violente il suo avantreno si alzava verso il cielo come quello di un jet in fase di decollo e non c'era minimamente verso di farla viaggiare senza sbandamenti nemmeno in rettilineo, figurarsi nelle curve! Chi aveva il necessario pelo sullo stomaco per portarla al limite narrava di visioni mistiche, fatte di pieghe garibaldine con il telaio in perenne avvitamento e l'avantreno impegnato a puntare, irrimediabilmente, all'esterno delle curve. La sorellina di 500cc non era da meno più anziana di qualche stagione, sfoderava nelle sue prime versioni una coppia di freni a tamburo che si tostavano non appena le frenate si facevano più allegre. La Suzuki GT 750 aveva un manubrio “all'americana” così alto che era praticamente impossibile superare i 170 km/h, pena l'innesco di pericolosi alleggerimenti dell'avantreno o la perdita in corsa del temerario pilota che aveva osato tanto. La sua prima versione inoltre aveva un freno a tamburo che non fermava la moto ma al massimo la rallentava. Nemmeno la regina delle gialle, la Honda CB 750, era perfetta. Il suo assetto volutamente turistico mal si conciliava con la potenza del motore ed il telaio e le sospensioni andavano in crisi quando si voleva esagerare un po' nei curvoni veloci. Fra gli appassionati più temerari di quegli anni c'era un installatore termoidraulico di Rimini: Massimo Tamburini, che un giorno finì lungo disteso sul tracciato del Santamonica di Misano mentre cercava di portare al limite la sua Honda Four 750. Il nostro eroe non si perse d'animo e appena ristabilitosi dalla caduta, decise di riparare la moto costruendo ex novo un telaio che con l'originale non aveva nulla a che spartire. Da questo primo lavoro prese vita una bellissima special in tiratura limitata e la Bimota (la società di Tamburini) passò rapidamente dagli impianti di riscaldamento alle maximoto sportive. L'idea di migliorare le moto nipponiche non venne solo a lui: noi italiani dopotutto non avevamo la necessaria esperienza e la componentistica per costruire dei plurifrazionati a due e quattro tempi, non eravamo in grado di verniciare con colori brillanti e metallizzati i serbatoi e la carrozzeria. Non eravamo nemmeno capaci di cromare altrettanto bene i motori, ma quanto a telai, sospensioni, freni e fantasia non dovevamo imparare niente da nessuno, nemmeno dagli inglesi, figuriamoci dai giapponesi! Fu così che in breve tempo, complici anche le corse per le derivate dalla serie, comparvero una miriade di artigiani specializzati che offrivano componenti ed accessori di prim'ordine per migliorare i mezzi. C'erano soluzioni per tutti i gusti e per tutte le tasche, con un continuo travaso di materiale dalle competizioni alla strada e viceversa. La prima operazione, obbligatoria per tutti, era quella di alleggerimento: via cavalletto centrale e marmitte originali, sostituite da performanti scarichi quattro in uno, con buona pace delle norme antirumore ancora allo stato embrionale. Via specchietti, indicatori di direzione (che fra le altre cose erano vietati dal codice di allora!?!?!?), sellone anatomico e largo alle famose selle biposto che di biposto avevano solo il nome. Il manubrio alto, definito pomposamente “all'americana” ma subito ribattezzato stendipanni, lasciava spazio ai semimanubri regolabili tipo corsa, nel tentativo di caricare maggiormente l'avantreno. Molti si preoccupavano per la catena di trasmissione, messa a dura prova dagli strappi a cui andava incontro nelle accelerazioni più brusche. Per questo motivo l'impianto originale veniva sostituito da un kit duplex. A volte la doppia corona finale era in nylon per risparmiare un po' di peso anche da quelle parti. Chi voleva osare di più si dedicava ad una trasformazione più corsaiola, con serbatoio maggiorato in vetroresina, codino monoposto e carenatura, frutto dell'esperienza fatta nelle corse di durata. Alcune carene nascevano espressamente per un dato modello, altre invece venivano definite “universali” ma in realtà avevano bisogno di un notevole lavoro di adattamento, con supporti, fori e distanziali per riuscire a farle indossare alla propria amata. Fra i fanatici dell'alleggerimento a tutti i costi si annidavano i solisti del trapano. Armati di tutto punto foravano qualsiasi superficie piana capitasse loro a tiro: dischi dei freni, pedane, carter, supporti delle marmitte, leve del manubrio e comandi a pedale. I più raffinati eliminavano il carter copricatena e lo sostituivano con una sottile striscia di lamierino completamente sforacchiata il cui unico compito era quello di impedire che il piede del passeggero venisse tritato dalla duplex di turno. I possessori di Mach III e Mach IV irrigidivano il forcellone saldando inferiormente dei supporti in lamiera ed acciaio e sfilavano di alcuni mm gli steli delle forcelle dalle piastre per prevenire il temutissimo decollo della moto in partenza. Gli ammortizzatori di serie lasciavano posto alla migliore produzione di allora: Marzocchi, Bitubo, Koni. Il maggior numero di accessori aftemarket interessavano però le Honda Four 500 e 750 che rano senza dubbio le maxi più diffuse del periodo. Per questi modelli, a livello di parti speciali, ai tempi c'era solo l'imbarazzo della scelta. Il vero paradiso per i proprietari delle Honda era la Samoto di Roma, che proponeva una serie infinita di parti racing: pedane arretrate, semimanubri, kit per l'installazione del radiatore dell'olio e relativo manometro, serbatoi in vetroresina, carburatori, scarichi e camme modificate. Chi non si accontentava delle prestazioni offerte dal modello di serie, poteva acquistare la special direttamente allestita dal concessionario romano: motore maggiorato a 983 cc, freno a disco posteriore, monoscocca in fibra di vetro che univa serbatoio, sella, fianchetti e codino. Prestazioni dichiarate 88 cv, accelerazione sui 400 metri intorno a 12 secondi e velocità superiore ai 200 Km/h; il tutto a 1.900.000 lire, moto compresa. A Milano invece c'erano Pattoni e Menani pronti a dare più grinta a propulsore e ciclistica. Menani passava allegramente dalle quattro cilindri giapponesi alle special su base nostrana (soprattutto Laverda ed MV Agusta) grazie ai suoi numerosissimi kit di trasformazione. Al telaio pensavano gli specialisti: Fritz Egli e Giuliano Segoni oltre al già citato Massimo Tamburini. Il costruttore svizzero Egli proponeva splendidi telai che si adattavano ai motori Honda e Kawasaki fossero a tre o quattro cilindri. La struttura era a doppio trave in acciaio al cromo-molibdeno, muniti di grosse pietre laterali per l'ancoraggio di motore e del forcellone posteriore scatolato. Fritz Egli su anche uno dei primi a credere nelle ruote in lega leggera. Il suo modello a sei razze veniva garantito per carichi sei volte superiori alle normali ruote a raggi. La Segnoni Corse, invece, prediligeva i quattro cilindri Kawasaki e per i propri telai si ispirava allo schema di Egli a cui abbinava forcelle Ceriani o Marzocchi, freni a disco Brembo o Fontana e l'immancabile kit per sostituire la carrozzeria originale con una monoscocca in vetroresina. Le Kawasaki Segoni presero parte a diverse edizioni del Bol d'Or con risultati lusinghieri, vista l'estrema ristrettezza dei mezzi a disposizione. La differenza fra versione corsa e versione strada era veramente minima. Allo stesso modo era quasi irrisoria la differenza, praticamente ridotta alle sole marmitte ad espansione, fra le due versioni della Suzuki Vallelunga, una special che l'altro importatore italiano (la Said di Torino) allestiva sulla base della tranquilla 750 GT e che doveva servire per le gare di durata. La “Vallelunga”, aveva un motore più spinto della GT, pesava 190 kg a secco contro gli oltre 230 della versione base e la Said dichiarava una velocità massima prossima ai 225 Km/h. Le Suzuki Vallelunga calcarono con successo le piste ma non era affatto raro incontrarle anche in strada. Non era nemmeno raro imbattersi in velocissime Honda Four che montavano il “kit Senior” messo a punto dalla IAP (il vecchio importatore Honda per l'Italia) per le competizioni. Questi siluri venivano presentati come delle repliche del modello Daytona, vincente in Florida con Dick Mann alla 200 Miglia del 1970. Per questo modello la Honda dichiarava una potenza di oltre 90 cv a 9.500 giri al minuto. Secondo la Honda la moto sfiorava i 260 Km/h! Forse i dati sono un po' gonfiati ma le Four “kittate Senior” viaggiavano veramente forte, in un clima di beata anarchia stradale tipico di quegli anni, dove la vera eccezione era rappresenta dal modello completamente di serie. Come detto gli unici antagonisti degli italiani in fatto di elaborazioni erano ai tempi gli inglesi. Al di la della Manica avevano capito velocemente quanto qui da noi quanto il limite delle moto del Sol Levante fosse dato dalla ciclistica. I preparatori inglesi così come quelli italiani si concentrarono sui telai con interventi radicali. Fra i più attivi c'era l'ex sidecarista Colin Seeley, già famoso per le sue special su base Norton. Seeley proponeva, per i modelli giapponesi più diffusi, dei telai in tubi Reynolds alleggeriti dal peso di 12 Kg, diversi kit per la carrozzeria, serbatoi in alluminio e gli immancabili componenti in fibra di vetro. Paul Dunstall si dedicava ai propulsori, maggiorando la cilindrata dei propulsori dei principali modelli delle Case Nipponiche e produceva diverse carene per “vestire” le moto di allora. Il tradizionale conservatorismo britannico andava a farsi quindi benedire di fronte ai modelli giapponesi, “bisognosi delle cure” dei sudditi di sua maestà. Così come in Italia, anche nel regno Unito c'era solo l'imbarazzo della scelta e soprattutto, bastava avere soldi da poter spendere. Un esempio su tutti è la Dimension Four, rivisitazione estrema della Honda Four 750, sulla quale si fece gran utilizzo di materiali compositi di provenienza aeronautica. Le sole sovrastrutture della moto, senza propulsore e impianto elettrico arrivavano a costare 1.150.000 lire nel 1975!! E' quindi chiaro di quanto tutto nei fantastici “Seventies” fosse differente da quanto lo è oggi. Le restrizioni del codice della strada erano minime e questo consentiva quando non incitava a cercare la prestazione ad ogni costo. Va detto che oggi le moto di serie vantano quasi tutte una componentistica di livello medio alto e che l'elaborazione è quasi più un vezzo che si concedono i loro proprietari che non una mera necessità atta a far stare in strada il mezzo come invece accadeva allora. E' però necessario ricordare che è proprio grazie allo spirito “dei nostri padri e dei nostri zii”, veri pionieri delle elaborazioni, se oggi abbiamo inculcata dentro di noi cultura della modifica e nel nostro DNA c'è questa smania per il miglioramento delle nostre motociclette. Sempre ad essi va attribuito l'aver gettato le basi per il proliferare di una miriade di aziende nazionali e non che producono i pezzi aftermarket che vanno ad abbellire oltre che a migliorare il comportamento dinamico delle “nostre amate”. Dal canto mio posso dire che questo sarà il terzo anno consecutivo di lavoro in officina al fine di realizzare la mia special e i racconti delle fantastiche serate passate con gli amici a lavorare sulle nostre motociclette credo che accompagneranno me e loro per sempre!

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