domenica 22 gennaio 2012

mercoledì 18 gennaio 2012

John Surtees: “il figlio del vento”

















Lo avevano ribattezzato con quel nome: “il figlio del vento” per la sua inesauribile voglia di confrontarsi con qualsiasi mezzo che gli potesse trasmettere l’emozione della velocità. Oltre a questo, nessun altro soprannome sarebbe stato più azzeccato per John Surtess, l’unico pilota al mondo che possa vantare di essersi laureato Campione del Mondo sia in sella alle moto da GP che al volante di una vettura da F1. Oltre a questo Surtees con il tempo ha anche saputo declinare in altre forme la propria passione per il motorismo agonistico, trasformandosi dapprima in costruttore automobilistico (le sue monoposto, affidate tra gli altri a Carlos Pace, John Watson, Vittorio Brambilla, Mike Hailwood e René Arnoux, hanno calcato l’asfalto degli autodromi tra il 1970 ed il 1978) e poi, in abile restauratore e collezionista di due e quattro ruote. Oggi, a 78 anni, è ancora sui circuiti, presenziando spesso ai GP sia di F1 che del Motomondiale oltre ad essere una figura immancabile ad ogni edizione del TT dell’Isola di Man. Suddito di sua maestà britannica, è nato l’11 febbraio del 1934 a Tatsfield, nella contea del Kent. La carriera di Surtees ha una fortissima connotazione italiana, al punto che si potrebbe riassumere tracciando sulla cartina geografica una linea retta che congiunga Cascina Costa a Maranello: ovvero il quartier generale rispettivamente della MV Agusta e quello della Ferrari. Con la prima delle due Case italiane John Surtees ha vinto ben sette titoli iridati: 4 nella 500 (1956, 1958, 1959 e 1960) e 3 nella 350 (1958, 1959, 1960). Di fatto alla fine degli anni cinquanta il Motomondiale aveva trovato il suo padrone assoluto in questo ragazzo inglese dall’inconfondibile sorriso. Surtees fu il degno successore di Geoff Duke e, nel suo cammino imperioso costellato di successi in sella alla MV Agusta, trovò solo un uomo capace di batterlo. Questo accadde nel 1957 quando il ternano Libero Liberati con la Gilera strappò il titolo iridato nella Classe Regina dalle mani del fuoriclasse inglese. La carriera di John Surtess iniziò nel 1950, quando appena sedicenne si presentò ad una gara di sidecar in qualità di passeggero, sul mezzo pilotato dal padre (Jack). “I due Surtees” durante la settimana condividevano il lavoro e la passione per la meccanica e le competizioni nel garage di famiglia. In quella occasione la coppia formata dai Surtees Senior e Junior vinse la gara ma, poi venne anche squalificata in quanto, al riesame dei documenti emerse che John non era ancora diciottenne e quindi non aveva l’età necessaria per poter gareggiare. La sua prima presenza nelle classifiche del Motomondiale risale alla stagione 1952, quando ottenne un sesto posto in Classe 500, guidando una Norton Manx 30 in occasione del Gran Premio dell'Ulster. Corse poi da “privato” e con mezzi poco competitivi (Norton e BMW) sino al 1954. L’anno successivo, nella sua carriera motociclistica, vi fu la svolta decisiva: in sella ad una NSU 250 ottenne la sua prima vittoria iridata al GP dell’Ulster, chiudendo il Mondiale della quarto di litro al settimo posto. In quella stagione prese parte anche al Campionato nella Classe 350 pilotando una Norton Manx 40, con la quale conquistò due terzi ed un quarto che gli valsero la sesta posizione in classifica iridata. A Cascina Costa si accorsero subito di questo giovane e talentuoso pilota inglese (John ai tempi era appena ventunenne) e prontamente, il Cavaliere Agusta, lo volle nella sua Scuderia. Alla MV, in Surtess, veniva riposta la speranza di aver finalmente trovato l’uomo giusto per porre fine allo “strapotere” di Duke e della Gilera a quattro cilindri, dominatori incontrastati della Classe Regina. John Surtess, non vanificò questa speranza, anzi ripagò immediatamente la fiducia accordatagli dalla Casa italiana e come detto, nel 1956 alla prima stagione in sella alla spettacolare MV, si fregiò del titolo iridato nella top-class conquistando tre vittorie. Dal 1958 al 1960 poi Surtess divenne addirittura l’incontrastato “padrone” del Motomondiale. In sella alle Moto di Cascina Costa riportò ben 37 vittorie (15 in 350 e 22 in 500). “Big John”, così come veniva chiamato nell’ambiente motociclistico per via del suo fisico muscoloso e della potenza che il suo stile di guida esprimeva, dette una impressionante prova della sua forza, polverizzando i record esistenti, praticamente su ogni circuito europeo. L’inglese, nonostante fosse un pilota ufficiale della MV Agusta, rimase comunque legato alla Norton ed in particolare alla mitica Manx. Innamorato delle competizioni inglesi, anche di quelle minori non valevoli ai fini della classifica del Campionato Mondiale, ottenne dal Cavalier Agusta la facoltà di prendervi parte proprio in sella alle famose monocilindriche britanniche, caratterizzate dal famoso telaio “featherbed”. Come vedremo questa sua caratteristica di essere pilota di una Casa ma voler correre a spot sotto le insegna di un’altra, fu una caratteristica che lo accompagnò per tutta la sua carriera. Nel 1959 Surtess, all’apice della forma e della fama nel motociclismo, sostenne un provino sul tracciato di Goodwood al volante di una Vanwall. Il passaggio dalle due alle quattro ruote non lo intimorì affatto, tanto che frantumò il precedente record della pista, abbassandolo addirittura di 2”. Fu Ken Tyrrell, già calato nel ruolo di scopritore di talenti, a suggerirgli di insistere e, pur ancora sotto contratto con la MV, Surtess il 4 maggio 1960 si schierò al via del GP di Monaco con una Lotus. Surtees, nel 1960 partecipò ad totale di quattro GP di F1, ritirandosi in tre occasioni ma arrivando secondo al GP di Gran Bretagna. Enzo Ferrari lo notò prestissimo, volle conoscerlo e gli offrì una sua macchina. In seguitò il Drake, nel suo libro “Piloti che Gente” scrisse che da sempre aveva ammirato i piloti di motociclette ritenendoli assolutamente adatti alla guida sulle quattro ruote per le loro innate doti di equilibrismo. In particolare riferendosi a Surtees: “Sono note le mie simpatie per gli ex motociclisti. Di John mi piaceva la tecnica, la passione, lo spirito e la serietà con la quale preparava la corsa. Era un combattente generoso che non si risparmiava. Non era mai contento perché sapeva che in meccanica c’è sempre qualcosa d’altro che si può scovare”. Il Drake sosteneva infatti che essi, in quanto avvezzi alle brusche reazioni di una motocicletta, ben si prestavano a gestire una vettura anche nelle situazioni più critiche. Surtess per quanto lusingato dalla proposta del Commendatore, non si sentiva ancora pronto e declinò l’offerta. Alla fine del 1960 con 7 titoli iridati nel palmares John Surtess chiuse la sua carriera agonistica nel Motomondiale, ritirandosi da campione del Mondo in carica sia nella Classe 500 che nella Classe 350. Sarebbe stato competitivo ancora a lungo e avrebbe certamente collezionato altre vittorie, ma ormai il pilota inglese aveva tracciato la sua strada, desideroso di cimentarsi appieno nelle nuove sfide che lo attendavano in F1. Il suo ritiro dai GP Motociclistici e quindi la fine del suo “regno” coincise con l’inizio di quello di un altro formidabile pilota inglese: Mike Hailwood che prese proprio il posto di Surtess in seno alla scuderia MV. Surtees dal 1961 si dedicò completamente all’automobilismo. Prese il via di quella stagione al volante di una Cooper T53 equipaggiata con il propulsore Climax da 1,5 litri. Ottenne dei piazzamenti ed il dodicesimo posto nella classifica finale. L’anno successivo portò in gara una più competitiva Lola MK4 sempre dotata del motore Climax da 1500cc. In quella stagione il pilota inglese raggiunse la maturità ottenendo due podi oltre a diversi piazzamenti che a fine anno gli valsero il quarto posto in campionato. Il “matrimonio” fra Ferrari e John Surtess, nato dal “flirt” di tre anni prima, era stato semplicemente ritardato. Infatti al termine della stagione 1962 esso si concretizzò e John Surtess divenne un pilota della Scuderia del Cavallino Rampante. Nel 1963 oltre alle vetture di F1 a Maranello affidarono (come era consuetudine allora) a Surtees anche le loro velocissime e competitive vetture “Sport” ossia le 250 P. Il pilota inglese, in coppia con l’italiano Ludovico Scarfiotti, trionfò in quella stagione alla “Sebring 1000 Km”. In F1, al volante della Ferrari 1.5 V6, Surtess arrivò a podio in diverse occasione e, nel GP di Germania siglò la sua prima vittoria iridata. Alla fine del campionato, Surtess segnò il quarto posto in classifica dietro a “mostri sacri” quali: Graham Hill (BRM), Jim Clark (Lotus). Il periodo di apprendistato era finalmente terminato. Per il 1964 a Maranello approntarono una vettura rivoluzionaria: la Ferrari 188. Questa auto fu la prima “rossa” dotata di telaio monoscocca (in scia a quanto già fatto dalla Lotus). Nata dalla mente e dalla matita di Angelo Bellei era equipaggiata con il nuovo propulsore Ferrari da 1500cc a 8 cilindri. La vettura risultò essere da subito estremamente guidabile oltre a vantare una potenza massima di oltre 210 cavalli, che la poneva al di sopra delle rivali britanniche. Tra il pilota inglese e la Ferrari 158 fu subito “amore” e John Surtess concluse a podio tutte le gare che portò a termine, ottenendo anche due splendide vittorie, nei GP di Germania e Italia. La stagione 1964 fu caratterizzata per tutta la sua durata dall’aspro duello che vide protagonisti Surtess e Graham Hill. Arrivati all’ultima gara in programma, il GP del Messico, la classifica vedeva al primo posto Hill e al secondo Surtess. I giochi erano ancora aperti. Proprio in quei giorni tra Ferrari e l’Automobile Club Italia scoppiò una feroce polemica e le vetture di Maranello vennero iscritte all’ultimo GP della stagione non con la loro classica livrea rossa (ossia il colore racing dell’Italia) ma dipinte di bianco, con una striscia blu che le attraversava dal muso alla coda (ossia i colori tipici della NART: North American Racing Team). Quella del Messico fu una gara rocambolesca, nella quale al pilota inglese del Cavallino Rampante diede una grossa mano Lorenzo Bandini. Il pilota italiano infatti mise quasi ko Hill e poi, nel finale si lasciò superare da Surtess, cedendogli la seconda posizione all’arrivo, mediante la quale, Surtees strappò il primo posto in classifica e di conseguenza il titolo iridato al rivale: Surtess 40 punti, Hill 39. “Big John” ce l’aveva fatta! Era il primo pilota della storia (e tutt’ora è l’unico) a fregiarsi dell’iride sia nel motociclismo che nell’automobilismo! Hill dal canto suo prese la sconfitta sportivamente ma volle togliersi una piccola soddisfazione: a Natale di quell’anno presso gli uffici della Ferrari arrivò un pacco destinato a Lorenzo Bandini avente come mittente appunto Graham Hill. Quando il pilota italiano scartò la confezione regalo, al suo interno trovò una compilation di dischi LP intitolati: “Come imparare a guidare una vettura, in 10 lezioni!”. La stagione 1965 partì con grandi aspettative. Alla Ferrari stavano approntando la B12 dotata appunto propulsore a 12 cilindri e il campione in carica aveva una gran voglia di confermarsi tale. La stagione partì subito con una bella serie di piazzamenti a podio che fecero si che Surtees “veleggiasse” nella parte alta della classifica, in lotta con Jim Clark. Così come ai tempi in cui era pilota della MV Agusta, e saltuariamente correva nelle gare senza validità iridata con le Norton; anche da pilota della Ferrari, Surtees non seppe resistere alla tentazione di provare mezzi di altre factory. Iniziò a prendere parte ad alcune corse valevoli per il campionato nord americano della formula "Can Am" al volante di una Lola. Proprio con quella vettura, il 24 settembre del 1965, sul velocissimo ed insidioso circuito di Mosport in Canada ebbe un gravissimo incidente che gli fece chiudere la stagione anzitempo. Il pilota di punta della Ferrari, doveva rinunciare anticipatamente alla lotta per il Mondiale F1 a causa di un incidente alla guida di una vettura di un’altra Casa! A Maranello questo non venne mai digerito. Durante l’inverno John Surtess si ristabilì in maniera ottimale e fu quindi in grado di presentarsi al meglio della forma al via della stagione 1966 con il chiaro intento di rifarsi. Nel frattempo però in fabbrica erano nati forti dissapori. Il d.s. della Ferrari, ossia l’ing. Eugenio Dragoni, decise che a doversi fregiare del titolo iridato in quella stagione doveva essere l’italiano Bandini e non l’inglese Surtess. Dragoni era però ben consapevole della velocità e della forza dell’inglese e iniziò una lenta e logorante campagna contro il suo pilota di punta. Ben nota a tutti era l’amicizia tra Surtees ed Eric Broadley, progettista della Lola. In fabbrica erano altresì consapevoli della grande competenza tecnica di Surtees e del fatto che egli potesse scorrazzare liberamente per il reparto corse ed osservare il lavoro dei tecnici sulle vetture da competizione. Iniziarono quindi a serpeggiare delle voci maligne che lo accusavano di spionaggio industriale. Trapelarono addirittura voci sul fatto che la nuova e non meglio identificata vettura della Lola, fosse l’esatta copia di una di quelle del Cavallino Rampante. L’accusa era gravissima. Ferrari in prima persona poteva perdonare qualsiasi tipo di comportamento da “monello” ai suoi piloti (soprattutto se portavano alla vittoria le sue vetture) ma, di fronte a tali accuse non potette restare indifferente. Surtees doveva essere cacciato! Questa decisone venne presa all’indomani del GP del Belgio, sul circuito di Spa-Francorchamps. Si attendeva la fine della gara per annunciarla ai media. Sotto il diluvio, il pilota inglese però divenne il “padrone” del tracciato delle Ardenne e ottenne una imperiosa vittoria dimostrando a tutti che l’incidente del 1965 era oramai solo un ricordo. Alla fine della gara dal tracciato di Spa partì una telefonata destinata ail Drake: “E’ arrivato primo, cosa dobbiamo fare?”. La risposta fu: “Sospendi tutto e torna casa!”. Evidentemente Ferrari a tal proposito aveva preparato un “piano di riserva”. La settimana successiva infatti, durante le prove della 24 Ore di Le Mans, il direttore sportivo Dragoni entrò nel garage di René Evenisse e, vedendo Surtees seduto sulla macchina di Ludovico Scarfiotti, lo apostrofò seccamente: “Cosa fai tu, su una macchina che non è la tua?” E mentre l’attonito pilota inglese si alzava e gli si avvicinava per chiedergli spiegazione ad un simile “foolish argument”, continuò: “Basta, tu con la Ferrari hai chiuso!”. Lo sospese dalla corsa e dopo un’ora ne annunciò il licenziamento. A nulla valsero l’unanime protesta della stampa, la disapprovazione generale dei tifosi e soprattutto l’intercessione di Keith Ballisat, il rappresentante del potente sponsor Shell: Ferrari non tornò mai sulla sua decisione. In seguito commentando il divorzio con Surtess precisò: “So quello che perdo, non so invece quello che perderei se lo confermassi”. Il licenziamento di Surtees rovinò tutta la stagione 1966, anzitutto perché il pilota avrebbe potuto facilmente vincere il Campionato del Mondo di F1 e poi, perché la sua assenza pesò come un macinio anche nel settore delle vetture Sport, da sempre cavallo di battaglia della Ferrari ed ambito in cui “Big John” eccelleva. Le vetture col cavallino rampante, in questa categoria, perso il loro uomo di punta e vennero superate da quelle messe in pista dalla Ford. Surtees concluse la stagione di F1 del 1966 guidando una Cooper con motore Maserati. Con quella vettura ottenne la vittoria al GP del Messico. Per i due anni successivi Surtess venne ingaggiato dalla Honda che nel frattempo aveva fatto il suo debutto in F1. La più grande soddisfazione al volante di una delle vetture nipponiche, Surtess, la ottenne il 10 settembre del 1967 quando a Monza, colse il suo ultimo successo in F1 proprio sul “circuito della Ferrari”. Guidò a seguire BRM e McLaren e poi per due anni le vetture da lui costruite. In seguito si ritirò dalla carriera di pilota. Come già detto, divenne costruttore (le sue vetture portavano il suo cognome) ed ottenne altre gioie: nel 1972 Mike Hailwood (nel frattempo passato pure lui dalle due alle quattro ruote) vinse il Campionato Europeo di F2. Nello stesso anno sempre Hailwood condusse una sua monoposto di F1 al secondo posto nel GP di Monza di F1 (il miglior risultato di sempre ottenuto in F1 da una vettura Surtees).

domenica 15 gennaio 2012

Bol d'Or 1969: un sogno divenuto realtà!


























Il nostro sport vanta una storia fatta di vicende entusiasmanti e grandiose, ma anche, a volte, drammatiche e commoventi. In ogni caso, qualsiasi sia stato il risvolto che un episodio legato al motociclismo agonistico abbia preso, si è sempre trattato di una storia di uomini, moto e gare! Alcune di esse hanno segnato più di altre questo sport, creando vere e proprie leggende che hanno varcato il tempo infiammando i cuori di tantissimi appassionati. La “favola” che oggi Vi voglio raccontare attraverso le pagine di Cesena Bikers è appunto uno di quei momenti che hanno reso immenso il motociclismo.
Anno 1969. In Europa è appena scoppiata la moda delle maxi moto. Dal lontano Giappone arrivano con la forza di uno tzunami moto meravigliose di grossa cilindrata e, una delle prime di esse, è la favolosa Honda 750 Four. In Francia, dal 1922 sino al 1960 (con le ovvie interruzioni negli anni del secondo conflitto mondiale) si è corsa una gara epica: il “Bol d’Or”. Questa competizione è l’equivalente per le moto di quanto accade in ambito automobilistico con la famigerata 24 Ore di Le Mans. I primi anni sessanta però sono anni di grave crisi per il motociclismo, sia transalpino che europeo: bassi volumi di vendite e scarso interesse da parte del pubblico che ora è attratto (e può permettersi..) dall’automobile Addirittura al “Bol d’Or” per riuscire a comporre una griglia di partenza era necessario accettare le iscrizione degli scooter!! Come detto però la fine del decennio portò con se un grande cambiamento di rotta e, complici i modelli nati nel Paese del Sol Levante, la gente iniziò ad appassionarsi nuovamente alla moto, intesa non più come semplice mezzo di trasporto nel senso stretto del termine, ma, come vero e proprio oggetto di passione! L’arrivo delle moto giapponesi in Europa fece si che anche l’industria del nostro Continente uscisse dal torpore in cui era caduta nel decennio precedente per dare vita a nuovi modelli, con i quali dare battaglia ai prodotti “dagli occhi a mandorla”. Tutte queste moto avevano bisogno di una vetrina sportiva adeguata con la quale ottenere la giusta promozione dinnanzi al pubblico. Tal e vetrina però doveva essere diversa rispetto al Mondiale in cui si davano battaglia le GP. I francesi lo capirono subito e nel 1969, dopo otto anni di “stop forzato”, si prodigarono per organizzare nuovamente il "Bol d’Or”. Chi concorse in questa scommessa fu un manipolo di giovani organizzatori, insieme ai giornalisti del settimanale francese di motociclismo “Moto Revue”. Il circuito che venne scelto fu quello di Montlhéry, un velocissimo tracciato sopraelevato, situato a sud di Parigi. Quello in cui però i transalpini non credettero con abbastanza convinzione (d’altronde, al primo tentativo, come dare loro torto..) fu che una tale manifestazione avrebbe esercitato un richiamo a livello continentale in quanto a team e a piloti. Essi infatti, in maniera del tutto prudenziale, idearono questa “edizione di ritorno” della famigerata competizione semplicemente come gara nazionale francese. Fu proprio questo fattore a giocare un ruolo determinante per gli allora diciannovenni: Michel Rougerie e Daniel Urdich. Per i due ragazzi infatti il 13 settembre 1969 si avverò quello che forse neppure avevano mai osato sognare: mentre erano nel paddock del circuito, intenti a preparare la loro moto in vista delle prove libere del “Bol”, vennero avvicinati da alcuni referenti della Honda Motor Co. che gli offrirono di portare in gara la moto ufficiale della Casa dell’Ala Dorata! Ma andiamo con ordine a spiegare cosa accadde quel giorno. La Honda aveva chiuso la sua attività agonistica a livello internazionale nel motociclismo, alla fine del 1967 per dedicare i propri fondi alle sue crescenti ambizioni, legate alla F1 automobilistica. Sul piano della produzione di moto di serie era però più che mai impegnata. “L’ammiraglia” della sua gamma era appunto la favolosa CB 750 Four. Per promuovere a livello mondiale questo modello a Tokio scelsero di partecipare alla corsa transalpina proprio con una versione adeguatamente preparata di questo modello al fine di ottenere, in caso di successo una preziosa pubblicità. Alla Honda c’erano da un lato i tecnici che misero a punto la moto, assolutamente certi di vincere la gara. A tal proposito essi “spingevano” affinché la Casa si schierasse in veste ufficiale. Dall’altro canto invece c’erano i vertici aziendali che, nel timore di fare nuovamente una “brutta figura” come quella rimediata dalla RC181 (la GP che pur pilotata dal grandissimo Mike Hailwood, non riuscì a strappare il Mondiale alla MV Agusta con in sella Giacomo Agostini), vollero adottare una politica prudente per non “bruciare” il loro modello di punta dinnanzi al grande pubblico. Si arrivò così ad una soluzione di compromesso che prevedeva che le moto fossero affidate (e quindi schierate in gara) dal concessionario inglese di Chester: Bill Smith Motors ma, assistite dalla Casa. Smiths, ex pilota, aveva stretti legami con la Honda, tanto che nel 1968 testò un prototipo della CB 750 sull’Isola di Man, fornendo così il proprio prezioso feedback agli ingegneri del reparto sviluppo della Casa nipponica. Nell’estate del 1969 la Honda portò le sue moto in Inghilterra cosicché Smiths ed il suo Team potessero collaudarle in tempo per il Bol d’Or, in programma a metà settembre. Steve Murray, un bravo pilota e caporeparto nell’officina di Smiths, provò due moto ad Oulton Park insieme a Bill Smiths, Tommy Robb e John Williams. A settembre le moto erano pronte e velocissime. Una volta a Montlhéry però non tutto andò liscio. Ai piloti del team anglosassone, giunti all’iscrizione della gara, venne detto che non potevano partecipare in quanto erano in possesso solo della licenza inglese ma che per poter gareggiare al Bol era necessario aver anche quella francese, rilasciata ovviamente unicamente dalla Federazione d’oltralpe. I piloti ed alcuni membri del team corsero allora a Parigi in taxi, presso gli sportelli della Federazione al fine di ottenere appunto quel “prezioso” documento a loro necessario per prendere il via della gara. Riuscirono ad entrarne in possesso e a tornare sul circuito giusto in tempo per l’inizio delle prove ma, al momento di scendere in pista, l’organizzazione negò loro il permesso di farlo in quanto: il “Bol d’Or” del 1969 era una gara nazionale francese e per potervi partecipare occorreva avere la cittadinanza transalpina. A quel punto allora da parte del Team, per non vanificare tutti gli sforzi sin li fatti, iniziò la febbrile ricerca di due piloti francesi con i quali rimpiazzare gli inglesi impossibilitati a correre dal regolamento. La concessionaria Honda di Parigi, la Japauto, che aveva concorso in questa avventura, prestandosi come la “base logistica” al Team di Smiths, a questo punto si rivelò fondamentale. Tra suoi uomini c’era il “team manager” dei giovani Rougerie e di Hurdich. I due piloti seppur ancora inesperti vantavano già una buona reputazione per le loro doti velocistiche e quindi vennero proposti al Team Smiths. Dato che le prove sarebbero iniziate di li a pochi minuti, al Team inglese (e alla Casa dell’Ala Dorata..), non avevano molta scelta e quindi i due diciannovenni “piacquero immediatamente”! L’accordo tra la Japauto ed il manager di Rougerie e Urdich, Christan Villaseca, andò in porto: a Villaseca in cambio dei suoi due giovani piloti venne regalata una CB 750 Four nuova fiammante! Per i due ragazzi salire su quella moto fu un’esperienza grandiosa. Essi non erano mai provato prima di allora una moto da corsa “di cui valesse la pena di parlare”. Ai tempi le quattro cilindri si stavano ancora diffondendo e quindi la Honda CB 750 Four, preparata per il Bol d’Or ebbe un grande impatto. A tal proposito Daniel Urdich in seguito raccontò: “Avevo 19 anni e dovevo iniziare l’ultimo anno delle superiori il lunedì successivo al Bol d’Or. Avevo cominciato a correre due anni prima con una CB 250 che avevo “truccato” io. Ricordo lo shock del pubblico quando ho portato il “Mostro” nell’area di controllo e verifiche tecniche: avevo attorno una dozzina di persone ed il silenzio assoluto! Era come se fosse atterrato un UFO!”. Mentre si avvicinava il momento della partenza aumentava la tensione. I capi nei box cominciavano a rendersi conto, dopo il parapiglia, delle pesanti responsabilità e aspettative che gravavano su Rougerie e Urdich. Smiths racconta: “All’inizio i due studentelli erano pietrificati! Tommy ed io ci raccomandammo più volte che guidassero sciolti ed in modo costante in quanto la moto era velocissima e per ottenere un buon risultato nelle prove ed anche in gara, bastava solo che non fossero caduti!”. Durante le qualifiche, i due piloti che si alternavano alla guida della moto con lo scopo di prendervi confidenza, fecero molte soste per effettuare le varie regolazioni. Urdich racconta: ”Ero abbastanza nervoso. Soprattutto quando i tecnici giapponesi ci chiesero quanto avessimo voluto che la moto tirasse: 210 km/h? 230? 240? Non avevamo idea! Io e Michel non avevamo MAI pilotato moto che avessero superato i 170 km/h! I tecnici ci dissero che avevano valutato che la nostra moto poteva essere di circa una trentina di chilometri orari più veloci di gran parte di quelle della concorrenza, escluse le Kawasaki H1.”Alla fine delle qualifiche Rougerie e Udrich ottennero il quarto posto dietro alle tre Kawasaki ufficiali. Nel breafing serale venne stabilito che i due piloti si sarebbero alternati alla guida con turni da un’ora e mezza cadauno. Al momento delle soste ai box, i ragazzi del Team Smiths si sarebbero occupati dell’olio e della lubrificazione della catena della trasmissione secondaria con del grasso alla grafite; mentre quelli della Japauto avrebbero gestito il rifornimento del carburante. Il momento della gara arrivò. Purtroppo il bel tempo che aveva caratterizzato tutta la settimana precedente alla competizione, lasciò il posto alla pioggia, complicando ulteriormente le cose per i due giovani piloti transalpini. Urich a tal proposito raccontò: “Non avevo mai corso con la pioggia e tenni una condotta molto prudente. Tommy Smiths, fu deluso della mia performance. Michel invece sulla pista bagnata guidava con disinvoltura ed era molto veloce. Egli proveniva dalla piovosa Parigi ed era abituato a quelle condizioni che per me invece erano proibitive.” Delle tre Kawasaki H1, tre cilindri a due tempi che in prova avevano preceduto la Honda del Team Smiths, solo una si dimostrò realmente proiettata verso la vittoria finale, dominando le fasi iniziali della gara. Steve Murray disse a tal proposito: “Andavano come il vento, ma conducevano la gara solo perché ogni volta che si fermavano ai box avevano la necessità di fare unicamente rifornimento di carburante”. Alle 02:30 del mattino, Murray andò a dormire ordinando di venire svegliato 15 minuti prima che Urdich salisse in moto dando il cambio a Rougerie. Il suo sonno però durò pochissimo. Egli racconta: “Mi ero appena buttato giù, quando Matsuda disse che Michel stava riportando la moto ai box senza luci e a motore spento! L’interruttore dei fanali era andato in pezzi ed erano saltati i fusibili. Yoshio Nakamura, il capo del reparto corse della F1 in Casa Honda che supervisionava l’impresa per conto della Casa dell’Ala Dorata, disse a Matsuda di toglierne uno dalla moto di scorta, ma io, per non perdere altro tempo prezioso, rimossi semplicemente le connessioni all’interruttore rotto e misi altri fili, facendo “un ponte” di modo che, quando partiva l’accensione, si accendevano anche le luci. Avevo quindi bisogno di un fusibile ma.. non ce n’erano!!”. E’ Bill Smiths a proseguire nel racconto: “ Steve prese un pacchetto di sigarette, gli tolse la carta argentata, la arrotolò sino ad ottenere un “fusibile di emergenza” e la incastrò nella moto ed essa ripartì! Circa sessanta minuti dopo, Urdich rientrò ai box con la moto ingolfata. Scoprimmo quasi subito che c’era dello sporco nel carburante. Fortunatamente la CB 750 Four aveva nel modello di serie un grosso gancio a W sotto la vaschetta del carburante che ne agevolava la rimozione per le operazioni di pulizia. Questo sistema fu mantenuto anche nella moto che schierammo al Bol d’Or e quindi ovviare all’inconveniente che si era creato fu piuttosto semplice”. Rougerie era dei due, palesemente il più veloce. Guadagnava terreno sugli avversari in sella alle Kawasaki sia sul bagnato sia sull’asciutto. La pioggia infatti andò e venne per tutto l’arco della gara. Pian piano anche Urdich acquistò fiducia in sé e iniziò a tenere testa ai leader della corsa. All’inizio infatti Rougerie guadagnava e Urdich perdeva . Il resto della notte e il mattino seguente trascorsero senza problemi, con la Honda a ridossi degli avversari in sella alle “verdone” di Akashi. All’avvicinarsi del traguardo pomeridiano, dopo aver via via migliorato il passo di gara, i due giovani piloti si erano insediati stabilmente in seconda posizione. Smiths a riguardo racconta: “ Era quasi mezzogiorno. La Kawasaki che fino ad allora era stata in testa fu tenuta ai box per quasi mezz’ora. Dopo altri trenta minuti circa, la moto prese di nuovo la corsia dei box. Aveva un problema alla catena. Osservai allora i meccanici al lavoro e mi accorsi che quel tipo di manutenzione si sarebbe dimostrato per i nostri avversari un vero e proprio calvario. Iniziai a ridere dentro di me quando per cambiare la catena vidi che dovettero alzare i tubi di scarico perdendo una marea di tempo! Credo che quando riuscirono a mettere la moto in condizione di riprendere la pista, la gara fosse già terminata!”. A quel punto, con la Kawasaki H1 capolista costretta ai box la Honda di Rougerie e Urdich si trovò in prima posizione. Il sogno si avverava: due ragazzini, con pochissima esperienza alle spalle, capitati per caso in sella alla moto schierata dalla più grande Casa motociclistica del pianeta, vincevano il Bol d’Or! Come stabilito a priori, in base alla suddivisione dei turni di guida, fu Urdich ad effettuare la fase finale della gara e quindi a tagliare il traguardo. La folla si riversò in pista e portò in trionfo questi due “eroi insperati”. Il giorno successi al Bol d’Or, il Team Smith, la Japauto, lo staff Honda oltre che ovviamente a Rougerie ed Urdich festeggiarono la vittoria sugli Champs Elysées come è tradizione fare in Francia a seguito delle imprese sportive più importanti! Così il Bol d’Or rinacque a nuova vita (da allora non ha più avuto interruzioni), si formò il fortissimo legame tra la Honda e la gara transalpina e si accese la rivalità, in questa corsa, tra la Casa di Tokio e quella di Akashi. Fu proprio la fortissima contesa tra Honda e Kawasaki che negli anni avvenire fece si che venissero scrisse altre, indimenticabili pagine di questa magnifica corsa e di conseguenza del nostro sport.

Per saperne di più:
http://cesenabikers.blogspot.com/2009/03/il-bol-dor.html

lunedì 9 gennaio 2012

Accadeva 34 anni fa..













Nel 1978 arriva in Europa Kenny Roberts ed il Campionato del Mondo, dopo l’egemonia di Agostini e il regno di Barry Sheene conosce un nuovo dittatore.
“Nel porgere gli auguri di buone feste, colgo l’occasione per comunicare il mio ritiro dall’attività motociclistica iniziata il 19 luglio 1961 nella Trento-Bondone. Da quella corsa fino ad oggi ho riportato 311 vittorie, 15 titoli mondiali, 18 campionati italiani, correndo in tutte le classi. Ho preso questa decisione con enorme sacrificio. Mi sarebbe stato certamente più facile correre. Dal motociclismo ho avuto tutto e penso che, pur continuando, non potrei avere di più di quello che ho già avuto nella mia lunga carriera. Ringrazio tutti coloro che mi sono stati vicini, i giornalisti, gli sportivi, i miei meccanici, che hanno partecipato alle mie gioie ed ai miei dolori. Questa mia decisione, però, non comporta l’abbandono totale dell’attività agonistica, in quanto è mia intenzione, nella prossima stagione, dedicarmi con rinnovato entusiasmo alle quattro ruote”.
La prima novità del Campionato Mondiale del 1978 arrivò da questo comunicato stampa con cui Giacomo Agostini, alla vigilia del natale 1977, annunciava il suo passaggio alle quattro ruote. Un duro colpo per il motociclismo orfano del suo personaggio più titolato e carismatico, colui che nel bene e nel male aveva calamitato su di se l’attenzione degli appassionati e della stampa, anche di quella estranea al mondo delle due ruote. Con il ritiro del Campionissimo si chiuse definitivamente l’era dei grandi successi marcati MV Agusta di cui Agostini, con la vittoria al Nurburgring del 1976 era l’ultimo e geloso testimone. La sua assenza, però, non era l’unica novità della stagione ’78: la seconda arrivava dagli Stati Uniti d’America e precisamente dalla cittadina do Modesto in California e portava il nome di Kenny Roberts. Lo statunitense, dopo alcune vittoriose apparizioni in Europa (tra cui la 200 Miglia di Imola), decise di trasferirsi nel vecchio continente per partecipare al Mondiale velocità addirittura in tre classi: 250, 500 e 750. Roberts godeva dell’appoggio della Yamaha USA e poteva contare su due meccanici eccezionali: Kel Carruthers, iridato nel 1969 con la Benelli nella quarto di litro e Nobby Clark, ex meccanico di Hailwood e di Agostini. In patria aveva vinto praticamente tutto, gareggiando sia in pista che nel dirt-track. Nonostante questo biglietto da visita, furono in molti gli scettici che relegarono, a priori, il giovane pilota californiano al ruolo dell’outsider, sia per la sua scarsa conoscenza delle piste che per l’impegno in tre cilindrate, ritenuto da quasi tutti troppo affaticante. Bastarono però pochi GP e tutti si dovettero ricredere. Dal 1978 ad oggi sono passati 34 anni (ad ora 33 stagioni agonistiche) eppure sembra essere trascorso un secolo, tanto è cambiato il mondo delle corse in questi cinque lustri. Tutto è diventato più serio, professionale e si è persa lungo la strada quell’atmosfera “ruspante e zingara” del Continental Circus “prima maniera”. Il paddock non era disseminato di asettici motor home dai vetri fumè e di monumentali Hospitality messe a disposizione degli sponsor, ma somigliava più ad una disordinata tendopoli, dove l’odore dell’olio di ricino si mischiava a quello delle cucine da campo. La squadra del sopra citato Kenny Roberts, che era presa a modello per essere una delle più organizzate, aveva un furgone officina, la roulotte dei meccanici ed un van che oggi nessun pilota, nemmeno l’ultimo dei privati, prenderebbe in considerazione. L’elettronica, con i suoi sofisticati sistemi di rilevazione ed azione sulla dinamica della moto, non aveva ancora fatto la sua comparsa ai box. Niente elettronica quindi niente telemetria, così i riferimenti arrivavano dal pilota con la sua capacità di “ascoltare” e la moto e quindi comunicare con i meccanici per fornire loro il maggior numero di informazioni utili per poter migliorare il mezzo. Niente elettronica e quini niente controllo di trazione: esso risiedeva unicamente nel polso destro di chi portava in pista la moto. La sensibilità era l’unico mezzo a disposizione dei piloti per aprire il gas al fine di essere veloci ma di saperlo comunque dosare per non mettersi la moto “per cappello”. Nessuno poi si era ancora sognato l’esistenza di impianti televisivi a circuito chiuso, quindi immaginiamo di sistemi GPS per la rilevazione del mezzo sul tracciato! I meccanici seguivano tutto dal muretto dei box o da qualche curva particolare di ogni tracciato, per capire se moto e pilota “erano in palla” oppure no.. I team che nel 1978 disponevano di moto ufficiali erano veramente pochi e chi voleva vincere (soprattutto in 500, 350 e 250) doveva entrare in quelle squadre, altrimenti era tagliato fuori dalla lotta per la vittoria e doveva accontentarsi delle posizioni di rincalzo, con la speranza di farsi vedere da qualcuno “che contava”. Andare a punti non era importante solamente ai fini della classifica, ma era una vera e propria necessità perché con il premio gara si coprivano le spese e, molte volte, quel premio serviva per tornare a casa! Così i privati accettavano di correre su circuiti pericolosi, come gli stradali di Imatra e Brno, con alberi, muretti e rotaie ferroviarie a far da contorno alla pista, perché il rischio della caduta era accettato con consapevole fatalismo e la morte faceva parte del gioco, molto più spesso di quanto accade ai giorni nostri. Qualcosa però stava cambiando. Proprio nel 1978 il GP di Jugoslavia si trasferì da Abbazia sulla nuova pista di Rijeka; il TT dell’Isola di man era oramai uscito dal giro iridato e, alcuni piloti, primo tra tutti proprio Kenny Roberts, guardavano con diffidenza il Nurburgring (che però portò molta gloria al pilota californiano) e Spa-Francorchamps. La parola sicurezza iniziava a far capolino e il “Marziano” venuto dagli States divenne ben presto l’esempio del moderno pilota professionista (che vive in funzione delle corse) da prendere come riferimento. Roberts con quattro vittorie, tre secondi posti ed un terzo si aggiudicò il titolo della Classe 500 sbaragliando gli avversari guidati da Sheene (campione in carica), Cecotto, Hartog e Baker. Non solo: dimostrò una sicurezza, una forza mentale e un’abilità nella guida fuori dal comune, tanto da meritarsi l’appellativo di “Marziano”. L’unico che nella prima parte della stagione riuscì ad impensierirlo fu un altro pilota statunitense: Pat Hennen. Compagno di team di Barry Sheene nel team Suzuki Heron e alla sua seconda stagione completa in Europa, dopo le prime cinque gare era in classifica immediatamente alle spalle del “Marziano”, ma poi volle provare il brivido del TT, incappando in una spaventosa caduta che ne troncò la carriera, costringendolo su di una sedia a rotelle. Gli altri protagonisti di quella stagione giocarono il ruolo di comprimari, incapaci di frenare il ciclone venuto dagli States. Barry Sheene e Johnny Cecotto faticarono a tenerne il ritmo: il primo alle prese con una forma fisica piuttosto precaria; il secondo rallentato dalla propria Yamaha che, sebbene assistita direttamente dalla Casa di Iwata, rendeva meno di quella guidata da Kenny. Wil “Coyote” Hartog partì invece decisamente al rallentatore, ma a metà stagione “ereditò” la moto ufficiale di Hennen infilando subito una serie di risultati positivi. Vinse in Belgio ed in Finlandia sul pericoloso tracciato di Imatra. E gli italiani? A parte l’acuto di Virginio Ferrari, che si aggiudicò l’ultimo GP della stagione al Nurburgring, fu un vero disastro. Lucchinelli con le Suzuki gestite dal neonato team Cagiva si piazzò al nono posto della classifica generale, mentre Rossi, Rolando, Bonera e Becheroni finirono tutti nelle retrovie. Battuto da Roberts in 500, Johnny Cecotto si prese subito la rivincita nella 750cc aggiudicandosi il titolo con appena cinque punti di vantaggio sul fuoriclasse statunitense. Cecotto vinse tre GP, uno in meno di Roberts, ma fu più costante nel “portare a casa” piazzamenti. Agli avversari rimasero solo le briciole: Christian Sarron, terzo in classifica si aggiudicò il GP di Germania con una magistrale 1° manche sotto la pioggia. Steve Baker, campione del mondo in carica e primo statunitense a fregiarsi di un titolo iridato nel Motomondiale, non trovò il necessario feeling con la moto e la squadra (il Team Nava-Olio Fiat di Gallina), finendo sesto in classifica generale, dopo un campionato piuttosto opaco. Il miglior italiano fu Gianfranco Bonera, l’unico che partecipò regolarmente a tutte le prove, quarto in classifica. Della sua stagione va menzionata la bellissima vittoria sul tracciato di Assen e i diversi piazzamenti a podio. Per tutti glia altri italiani fu invece una stagione da dimenticare. Solo Lucchinelli si tolse qualche soddisfazione in prova, ma in gara il veloce pilota spezzino fu troppo spesso appiedato dalla scarsa affidabilità della sua Yamaha TZ. Se Roberts e la Yamaha costituirono un binomio imbattibile nella mezzo litro, Kork Ballington e la Kawasaki fecero altrettanto in 250 e in 350. Il pilota sudafricano, grazie alla superiorità delle “verdone”, impose subito un ritmo da schiacciasassi in entrambi i campionati, lasciando ben poche speranze agli avversari. Nella 350 Ballington fece addirittura il vuoto: si aggiudicò sei delle undici prove e solamente una volta non concluse, per grippaggio, nell’ultimo GP corso in Jugoslavia. Katayama, Hansford ed Ekerold, classificati nell’ordine dietro a Ballington, finirono lontanissimi in classifica, a oltre 50 punti dal vincitore. Nella quarto di litro l’unico vero avversario in grado di contrastare il baffuto sudafricano fu il suo compagno di squadra, l’australiano Gregg Hansford. Pilota velocissimo a dispetto del suo fisico possente, più adatto ad una 750 che ad una 250, Hansord vinse in Spagna, Francia, Svezia e Jugoslavia ma, purtroppo per lui accusò anche tre battute d’arresto che lo confinarono alla piazza d’onore. In classifica un vero e proprio abisso separava i due alfieri della Kawasaki dagli altri piloti: il francese Fernandez, terzo in classifica, in sella ad una Yamaha, accusò uno svantaggio di quasi 70 punti dalla vetta! Sulla vittoria di Ballington rimase l’ombra del solito Roberts che partecipò solo alle prime sei gare dimostrando la consueta sicurezza. Il pilota Statunitense si impose in Venezuela ed Olanda, piazzandosi al secondo posto in altre due occasioni (Spagna e Francia). Poi il “Marziano” decise di abbandonare la quarto di litro per concentrarsi sulle due massime cilindrate: 500 e 750, lasciando tutti nel dubbio sull’effettivo sviluppo del Campionato se si fosse presentato al via in tutte le prove. Anche in questa classe gli italiani dovettero accontentarsi del ruolo di comprimari. Mario Lega, campione del Mondo in carica, non andò oltre due terzi posti ( Finlandia e Cecoslovacchia). L’unica vittoria italiana arrivò grazie a Paolo Pileri, primo a Spa-Francorchamps con la Morbidelli. Se il 1978 fu avaro di soddisfazioni per i piloti italiano nelle medie e grosse cilindrate, la 125 sorrise ai nostri colori. Merito di Eugenio Lazzarini e Pier Paolo Bianchi che si contesero il titolo in sella a due realizzazioni di casa nostra: MBA e Morbidelli. Lazzarini vinse quattro GP e raccolse punti preziosi in quasi tutte le altre prove. Bianchi invece subì moltissimo la pressione del suo compagno di squadra, lo spagnolo Nieto, ingaggiato dalla Minarelli proprio per dare manforte al pilota italiano nella conquista del titolo. Bianchi incappò in una serie di errori, culminata con una rovinosa caduta ad Imatra. Questo spianò la strada al pilota pesarese, Lazzarini, verso la conquista del titolo iridato. La Minarelli si aggiudicò ben otto prove iridate ma, nessuno dei due piloti vinse il campionato del Mondo nel 1978. La minima cilindrata vide ancora protagonista Eugenio Lazzarini, questa volta in sella ad una Kreidler Van Veen. Il pilota italiano lottò per tutto il campionato con Ricardo Tormo, prima guida della Bultaco, ma sulla classifica finale influirono negativamente le due prove sfortunate in Italia e Cecoslovacchia, dove non conquistò punti iridati. Al Mugello la sua Kreidler rimase al palo e Lazzarini riuscì ad avviarla solo dopo essere stato doppiato due volte dagli avversari. In Cecoslovacchia, invece, fu costretto al ritiro per l’unico inconveniente tecnico della stagione. Il titolo finì così nelle mani di Tormo, capace di aggiudicarsi cinque delle sette prove in calendario. Un’ultima considerazione sui numeri di quel campionato: al termine della stagione si laurearono Campioni del Mondo sei piloti (otto se si tiene conto anche dei sidecar..). Troppi per il motociclismo che voleva iniziare a pensare in grande guardando alla F1 automobilistica, dove il campione era (ed è) uno solo. Qualcuno tra gli addetti ai lavori, iniziò a sollevare perplessità riguardo alla dispersione di forze ed interesse in così tante cilindrate. Si iniziò a parlare di classi noiose con poco seguito fra il pubblico (la 750 era tra queste..) e di altre che stavano diventando degli inutili doppioni, come la 250 e la 350. Ci si iniziò a muovere verso una politica di sfoltimento dei “rami secchi” che, negli anni ha portato prima alle sole tre classi 125, 250 e 500 poi, a partire dal 2002 all’introduzione dei quattro tempi con la Moto GP prima, la Moto 2 a seguire ed infine la Moto3. Una politica che a volte ha assunto toni un po’ troppo azzardati in quanto a partire dal 1988 le moto con propulsori a quattro tempi hanno avuto la loro ribalta con la creazione del Campionato Superbike. E si sa.. a volte neppure la pianta più robusta sopravvive alle potature più insensate, soprattutto in periodi di “forte secca” come quello che stiamo vivendo..