martedì 21 febbraio 2012

CRT: una "novità" di oltre quarant’anni














I Claiming Rules Team sono la più importante novità della stagione 2012 del Motomondiale. E’ dall’anno scorso che se ne parla ininterrottamente e credo che sia quindi giunta l’ora di aprire anche su Cesena Bikers una parentesi per spiegare a chi ancora non lo sapesse cosa sono questi CRT. Come sappiamo la griglia di partenza della Classe Regina del Motomondiale in questi anni di forte crisi economica è composta da 15 o 16 moto. In pratica ad un pilota, per raccogliere punti iridati “è sufficiente” non stendersi durante la gara. Alla fine degli anni Novanta e all’inizio di questo secolo una situazione del genere era impensabile (per non parlare dei Settanta e degli Ottanta dove spesso erano necessarie le pre-qualifiche per fare una scrematura al fine di non sovraffollare le “starting grid”). La linea di partenza della Moto GP appare ancora più deserta se la si confronta con quella della sua “sorella minore” la Moto 2 dove una politica votata al contenimento dei costi ha fatto si che numerosi nuovi team si siano potuti affacciare al motomondiale a tutto beneficio dei giovani piloti che, con essi, hanno avuto modo di entrare a fare parte del “giro più in” del motociclismo. Le corse come si sa, sono da sempre uno sport oneroso dal punto di vista finanziario e, in questi anni di ristrettezze economiche, per i Team non ufficiali è sempre più difficile raccogliere i budget necessari per affrontare una stagione in una Classe dove l’esasperazione tecnologica ha fatto si che i costi di gestione delle moto siano cresciuti in maniera esponenziale. Oggi, per un “privato” è assolutamente impossibile ottenere risultati importanti, riuscendo a tenere testa, anche solo in qualche sporadica occasione, ai piloti che hanno la fortuna (ed il merito) di portare in gara una moto ufficiale. Ecco allora che alcuni ottimi Team di “secondo livello” come ad esempio il Team Pons, sono stati costretti in a sparire dalla scena. Basti pensare che a vincere i singoli GP, negli ultimi anni, sono sempre i soliti 4/5 piloti e questo ha ulteriormente disincentivato piccoli e medi sponsor a voler comparire sulle carene e sulle tute dei piloti che non fanno parte di questo lotto. E’ infatti impensabile in un momento storico dove le aziende faticano a tenere aperti i battenti, “sprecare risorse” per non vedere neppure inquadrato il pilota e la moto che si finanzia dalle telecamere della TV e per non comparire se non in maniera assolutamente marginale sulla carta stampata. Gli organizzatori dei GP, consci che questa situazione avrebbe portato alla morte di questo sport hanno deciso di correre ai ripari mettendo nuovamente mano al regolamento. Il Motomondiale ha visto quasi inalterate il proprio regolamento dal 1949 al 2001 ma, nel 2002 la svolta epocale: via gradualmente le “vecchie” 500 a 2 tempi e largo alle 1000 a 4 tempi (ed in seguito alle 800 e poi a seguire nuovamente alle 1000) nella Classe Regina. Questo per assecondare il volere delle Case che non avevano più alcun interesse ad investire in moto spinte da propulsori che da tempo non fanno più parte di alcuna produzione in serie. Il 2009 è stato l’ultimo anno della Classe 250. Dal 2010 essa è stata soppiantata dalla già menzionata Moto 2. Qui addirittura è completamente sparita la partecipazione delle Case: tutte le moto sono infatti spinte da un propulsore Honda da 600cc (derivato da quello della supersportiva stradale della Casa di Tokio: la CBR 600). Solo le ciclistiche e le sovrastrutture sono ancora allo stato prototipale. Le Case sono quindi state rimpiazzate dai “telaisti”. La sfida tra i costruttori di motociclette, a livello di “serie cadetta” la si può quindi ora ammirare unicamente nel Mondiale Supersport. A breve questa sorte toccherà alla 125 che diverrà Moto 3.Quando questo accadrà, il Motomondiale non avrà sotto questo aspetto più alcuna continuità con il suo passato. L’ultima di queste novità apportate al regolamento del massimo campionato di velocità si chiama appunto CRT. Per poter spiegare appieno cosa sia questa novità, credo sia necessario fare riferimento alla netta distinzione esistente tra i due massimi tornei oggi esistenti: la Moto GP e la Superbike. La differenza sostanziale che intercorre tra queste due categorie è che nella prima gareggiano unicamente dei prototipi, mentre la seconda è la Classe dedicata alle “derivate dalla serie”. Per anni la Classe Regina del Motomondiale (oggi appunto moto GP) è stata vista da tutti come il Gotha del motociclismo, ossia la Classe dove si potevano ammirare le moto ed i piloti migliori del mondo. Al contrario la Superbike, sebbene estremamente spettacolare, è stata vista all’inizio come un ottimo campionato per gli “ex del Motomondiale”. Solo il tempo, le capacità degli organizzatori e l’arrivo di ottimi piloti “specialisti di categoria” hanno fatto si che essa assumesse una propria, forte identità sino a diventare la reale alternativa ai Gran Premi. Questi ultimi infatti, hanno fatto della loro esclusività la loro bandiera. Essa però, in un periodo di grandi travagli economici come quello che stiamo attraversando si è rivelata, come già detto, un’arma a doppio taglio. Per rimpinguare una griglia di partenza ridotta all’osso, all’IRTA hanno deciso di puntare su di una formula innovativa andando ad attingere da quella collaudata della Moto 2. Sono così nati appunti CRT ossia i Team che partecipano alla Moto GP mettendo in pista moto allo stato prototipale per quanto concerne ciclistica e sovrastrutture ma dotate di propulsori derivati direttamente da quelli impiegati nella Superbike, affrancati da quest’ultimi unicamente da qualche restrizione regolamentare in meno. La elitaria Moto GP ha quindi aperto le sue porte a moto ibride, trovando nella Superbike la propria ancora di salvataggio. Allo stato pratico i propulsori che possono essere utilizzati devono derivare dalla serie, con una cilindrata massima di 1000cc, senza limiti al numero di cilindri ma con un diametro massimo dei singoli pistoni pari a 81mm. Le moto CRT inoltre possono essere dotate di serbatoi di carburante dalla capacità massima di 24 litri (contro i 21 delle Moto GP). I CRT potranno inoltre utilizzare 12 propulsori a stagione per moto contro i 6 concessi alle Moto GP. Allo stato attuale l’unico propulsore che si vedrà girare in pista è il 4 cilindri BMW che equipaggia la 1000 RR, supersportiva della Casa di Monaco di Baviera. Per quanto concerne la parte ciclistica i telaisti che hanno investito nella Moto 2, forti del loro know-how hanno lanciato le loro proposte. Questa formula è stata quindi studiata con l’intento di mettere in pista mezzi i cui costi di gestione non sono troppo elevati. Per inibire lo sviluppo di propulsori troppo costosi, il regolamento impone ai team CRT l’obbligo di vendere il proprio motore ad una squadra “ufficiale” che ne faccia richiesta a fine gara. La cifra prefissata è di 20.000 euro (15.000 senza trasmissione). Ogni team iscritto alla MSMA (Motorcycles Sports Manufacturer’s Association) ossia i Team “ufficiali” CRT possono ricorre solamente una volta cadauno a questa opzione e al contempo ad ogni squadra può essere chiesto solo una volta nell’arco della stagione di vendere il proprio motore. I più ottimisti valutano che una stagione intera in sella ad una di queste moto possa costare anche meno di 1,5 milioni di euro. Se BMW da un lato fornisce i propulsori, c’è invece chi come Aprilia, ha avviato un programma specifico sfruttando il nuovo regolamento. La Casa di Noale vende il progetto ART (Aprilia Racing Technology). Si tratta di una versione leggermente riveduta e corretta della sua Superbike (moto intera). Il prezzo del leasing per correre con questa moto varia a seconda del tipo di supporto tecnico richiesto dal team che ne vuole usufruire alla Casa. Le ART sono state scelte da due Team: quello Speedmaster (che mette in pista Mattia Pasini) e quello Aspar ()che fa correre Randy De Puniet e Aleix Espargarro). Queste moto, già nelle prime uscite hanno fatto registrare tempi di tutto rilevo, analoghi a quelli delle “vecchie” Moto GP da 800cc. Alle Case ufficiali ed in primis alla Ducati però questa soluzione non è andata giù. Di fatto l’Aprilia è uscita dalla porta della Moto GP abbandonando il mai competitivo progetto RS Cube (il prototipo a tre cilindri schierato nei primi anni della Moto GP), rientrando “dalla finestra” sfruttando appunto la propria moto che gareggia in via ufficiale nel Mondiale Superbike. Il tutto con un notevole contenimento dei costi a favore della casa di Noale e di un’impressionante ritorno d’immagine per il proprio prodotto di serie, potenzialmente competitivo addirittura nei GP!! I detrattori di questa nuova formula si sono a questo punto scatenati: ci sono coloro che ribadiscono ad ogni occasione che le CRT sono ancora lente rispetto alle Moto GP. Se il gap tra queste moto sarà eccessivo il pubblico assisterà ad una gara nella gara. Altri invece temono addirittura che il 2012 possa essere un anno di transizione in attesa di nuove modifiche del regolamento che in futuro prevedano in pista solo CRT, con il verificarsi di una situazione analoga a quella della Moto 2 dove le Case sono uscite di scena. In questa situazione, l’interesse d i quest’ultime allora convoglierebbe immancabilmente verso la Superbike, dove esser si possono ancora sfidare, rendendola di fatto la Classe Regina. In ultimo ci sono coloro che, fanno dell’ART addirittura un problema “ideologico” attraverso questa osservazione: “Essendo l’Aprilia di fatto una Superbike che gareggia nei GP, a questo punto dove è finita la linea di demarcazione tra i due Campionati? Non varrebbe quindi la pena di fondere queste due categorie e farne una al top?”. Il massimo Campionato per le derivate dalla serie nel frattempo sembra fortunatamente attraversare un periodo di buona salute. Ben 6 Case impegnate a darsi battaglia, 15 Team e 24 piloti iscritti, sono numeri importanti che denotano una situazione “sana”. Sicuramente in questa serie, non si vedranno disparità tali tra le moto da far si che si vengano a creare distinzioni tra piloti e moto di serie “A” e di serie “B”. Probabilmente ora come ora sarebbe proprio questo campionato a rimetterci se si dovesse verificare la fusione che alcuni prospettano. Tutta questa situazione se da un lato “spaventa” alcuni tra gli appassionati e gli addetti ai lavori, dall’altro fa sorridere coloro che conoscono la storia delle corse. Qualche tempo fa al Motoclub, si “faceva un gran dire” riguardo alle CRT. Nel pieno della discussione ho ricordato ad alcuni dei presenti che alla fine queste CRT non rappresentano nulla di nuovo nel motociclismo. Più di quaranta anni orsono, le uniche moto “ufficiali” a gareggiare nella Classe Regina erano le imbattibili MV Agusta, le potentissime Honda. Ad esse si univano le Benelli, le Patton e più tardi le Yamaha. Per il resto le griglie di partenza erano colme di monoclindriche inglesi (Norton Manx soprattutto). Quest’ultime però nulla potevano contro le rivali pluricilindriche. I piloti privati di allora iniziarono a sostituire queste obsolete cavalcature ad altre più moderne, utilizzando delle ciclistiche costruite ad hoc nelle quali andavano ad installare i propulsori a due tempi delle Kawasaki Mach III o delle Suzuki Titan. Addirittura, Jack Findlay, portava in gara una moto con un propulsore marino!! Allora non si parlava certamente di CRT. Tutto si poteva riassumere in: passione e voglia di gareggiare (nella speranza di far registrare dei risultati validi ed essere magari notati dalle Case che potevano offrire le moto “buone”). Sarebbe bello se oggi, invece che parlare sempre più di budget e sempre meno di “manico” ci si ricordasse di quei tempi!

domenica 12 febbraio 2012

GP di MACAU 1988





Strepitosa vittoria di Kevin Schwantz nel GP di macau del 1988. In questa gara si misuravano i piloti del Motomondiale, quelli della Superbike e quelli provenienti dalle Road Races. Quando gli uomini erano veri uomini e le motociclette erano vere motociclette..
Per saperne di più:
http://cesenabikers.blogspot.com/2011/01/macao-la-scuola-dei-campioni.html

Australiani: tipi tosti!

















Wayne Gardner, Mick Doohan, Casey Stoner nei GP, Troy Corser e Troy Bayliss nel Campionato Mondiale Superbike. Questi sono i nomi dei piloti australiani più famosi nella storia delle competizioni motociclistiche, quelli che hanno vinto almeno un titolo in uno dei due massimi Campionati Mondiali di velocità. L’Australia quando “sale in sella ad una moto ed afferra i semi manubri”, non scherza affatto! Il comune denominatore proprio di tutti i suoi campioni è sempre lo stesso: il carattere di ferro! Caparbi, mai domi nello spirito, duri e risoluti in pista, velocissimi e determinati a vincere contro tutto (soprattutto contro il dolore fisico) e contro tutti. Gardner è l’icona del motociclista australiano: magari non brillantissimo a livello di stile di guida ma velocissimo. Curve affrontate con traiettorie larghe in ingresso per arrivare strettissimo alla corda ed infilare gli avversari. Grintoso al limite dell’aggressività e spericolato, è stato l’unico pilota che dal 1983 al 1993 sia riuscito ad interrompere il domino Yankee nei GP. Accadde nel 1987 e l’australiano guidava una Honda dal carattere indomabile proprio come il suo. Il binomio risultò imbattibile per chiunque ed anche il plurititolato Eddie Lawson in sella alla Yamaha, dovette piegarsi di fronte al suo acerrimo rivale. Una serie di infortuni ha fatto si che nel 1992 appendesse il casco al chiodo, forse troppo presto, ma non prima di aver vinto ancor un ultimo GP, in Inghilterra nello stesso anno. Gardner inoltre ha vinto ben quattro volte la Otto Ore di Suzuka, diventando il beniamino del pubblico nipponico. Mick Doohan, cinque Mondiali conquistati dopo aver rischiato addirittura l’amputazione della gamba destra in seguito ai postimi del terribile incidente di Spa Francorchamps del 1992. Letteralmente rapito dall’ospedale olandese (dove era in cura dopo l’incidente) dal dottor Marcello Costa, si è sottoposto ad una terapia dolorosissima pur di salvare il suo arto menomato. Ha sofferto in silenzio consapevole che “sarebbe tornato” e che lo avrebbe fatto da vincente! Dopo un 1993 in cui si è preparato, dal 1994 al 1998 è stato l’unico, indiscusso re della Classe Regina. Ha triturato gli avversari trovando dentro di se una forza micidiale che lo ha reso uno tra i più grandi di sempre. Casey Stoner sta scrivendo ancora la sua storia ma ha già conquistato due volte l’iride in Moto GP piegando Valentino Rossi nella prima occasione e Jorge Lorenzo la seconda. Di sicuro attualmente è il pilota più veloce in pista, quello che più di ogni altro ha imparato a guidare questi bolidi, fidandosi ciecamente della elettronica che essi offrono, buttandosi “a vita persa” in ogni curva, costantemente al limite (e spesso oltre). Troy Bayleiss, tre Mondiali vinti con la Ducati, portando al successo 3 moto diverse: la 998, la 999 e la 1098. Nessuno come lui ha saputo adeguarsi ai cambiamenti del mezzo e dei regolamenti, neppure Fogarty, che ha vinto quattro Titoli ma sempre con la stessa moto. Troy Bayleiss ha avuto dentro di se l’istinto animale per la vittoria, la forza mentale ed il talento per ottenerla. Nella storia il suo rientro ai GP nel 2006, come “premio” concessogli dalla Casa di Borgo Panigale per aver trionfato nel Campionato Superbike. Valencia, ultima gara della stagione. A giocarsi il titolo sono Nicky Hayden e Valentino Rossi. A Troy viene offerta questa possibilità. Lui sa di avere con i GP un conto in sospeso. Nei tre anni di militanza in questa categoria non ha messo in evidenza tutto il suo talento cristallino. Sale in sella della Ducati Desmosedici MY 2006, moto per lui nuova, gomme mai provate prima e.. come morso dalla tarantola imprime un ritmo infernale alla gara, vincendola distaccando tutti gli altri! Il conto coi GP è finalmente chiuso! Troy Corser. Due titoli Mondiali Superbike, una carriera che lo vede tra i protagonisti dal 1994 e che ha abbracciato ben tre decadi! Vincente con ogni moto: ha corso con Ducati (con la quale ha vinto il suo primo Mondiale), ha avuto una parentesi sfortunata nei GP, ha condotto in gara la Proton, ha portato al successo Aprilia, Yamaha, Suzuki (la moto del secondo titolo iridato) ha contribuito allo sviluppo della BMW. Moto bicilindriche, a tre cilindri o a quattro non faceva differenza: Troy era sempre la davanti a lottare con i migliori di cui lui ha sempre fatto parte! Capace di sferrare la zampata decisiva quando tutti di lui dicevano: è finito, è sul viale del tramonto, non ha più nulla da dire! Caparbio e veloce. Potrebbe aver vinto molto di più se non si fosse accasato in squadre poco competitive, forse lusingato da ingaggi di primissimo livello. Oltre a questi “magnifici cinque” il Nuovissimo Continente che piloti ci ha offerto? Partiamo da Keith Campbell, primo Campione del Mondo australiano. L’anno era il 1957 e la moto era una Guzzi 350cc. Morì a soli 27 anni in un GP. In 125 il primo e sino ad ora unico titolo iridato australiano è quello conquistato nel 1961 da Tom Phillis. Egli fu anche secondo in 250, dietro al grandissimo Mike Hailwood. Sempre in 125 si ricorda il successo di John Dodds su Aermacchi, nel 1970 sul difficile tracciato del Nurburgring: il pilota venuto “dagli antipodi”, regalò il primo successo nei GP alla Casa varesina. Nella classe 250 l’unico pilota australiano a fregiarsi del titolo iridato è stato Kel Carruthers, nel 1969 su Benelli. Kel doveva aiutare il nostro Paso a conquistare finalmente quell’iride che da tempo inseguiva. Una serie di infortuni invece mise fuori gioco Renzo Pasolini e Carruthers si trovò spianata la strada verso la conquista dell’iride, grazie anche, ad una moto estremamente competitiva. Più sfortunato di lui, fu invece Gregg Hansford. Nel biennio ’78-’79 in sella ai “missili verdi” di Akashi, arrivò secondo in 250 e terzo in 350, preceduto dal fortissimo compagno di squadra, il sudafricano Kork Ballinghton. Nelle due classi intermedie la Kawasaki alla fine degli anni Settanta dominava la scena! Graziano Rossi, scherzosamente considerava Hansford come il suo “porta fortuna”. Tutte e tre le vittorie di Rossi senior nel Mondiale, sono avvenute proprio battendo Hansford. Il biondo australiano si ritirò con 10 successi nel palmares e si dedicò alle corse automobilistiche. Trovò la morte in una di queste nel 1995. Nella Classe Regina il primo GP vinto da un australiano fu quello dell’Ulster nel 1953 da Ken Kavanagh. Egli è rimasto famoso nel tempo per aver portato in gara la mitica Moto Guzzi 8 cilindri. L’assalto alla conquista della corona iridata sfuggì prima a Jack Ahearn nel 1964 (che venne battuto dal Mike Hailwood in sella alla MV Agusta 500) e poi a Jack Findlay nel 1968 (a trionfare questa volta fu invece Giacomo Agostini, sempre su MV Agusta 500). In tempi più recenti, parliamo dei primi anni Novanta, si è messo in luce un altro forte pilota australiano: Daryl Beattie. Fu sostituto di Doohan, durante l’infortunio diquest’ultimo, alla Honda. Vinse in coppia con Wayne Gardner la 8 Ore di Suzuka del 1992. Nel 1993, al ritiro di Wayne, divenne compagno di squadra di Doohan in seno al team ufficiale Honda HRC. Passò poi alla Suzuki. Durante i test invernali del 1994 incappò in una banale scivolata con la sua moto che però gli costò un infortunio molto serio: si amputò tutte le dita del piede sinistro, triturato dalla catena di trasmissione della moto. Con caparbietà tornò in sella, contribuendo allo sviluppo di uno stivale speciale che gli consentisse di poter guidare, anche con questa menomazione, una 500 da GP. Nel 1995 fu protagonista insieme a Doohan della lotta la titolo iridato. Si è ritirato dalle competizioni con 3 vittorie, 7 secondi e 3 terzi posti. Ultimo in ordine di tempo è Chris Vermeulen. Fortissimo sul bagnato, ha portato al successo la sua Suzuki nel 2007 nel GP di Francia sul tracciato di Le Mans. Vermeulen è il classico esempio del pilota che avrebbe potuto fare di più se solo fosse capitato in una Squadra capace di fornirgli una moto competitiva. Giovane promessa della Superbike, nel 2005 è stato vicecampione del Mondo in sella alla Honda CBR 1000 ufficiale. La Honda in lui vedeva l’uomo giusto per tornare alla vittoria nel Campionato Mondiale dedicato alle derivate della serie e gli fece questa proposta: “Nel 2006 corri ancora in Superbike per noi (vincendo il titolo..) e dal 2007 ti portiamo nei GP in sella ad una delle nostre moto”. Una proposta allettante per un pilota di soli 24 anni! Nello stesso periodo però la Suzuki era alla ricerca di un secondo giovane pilota da affiancare allo statunitense John Hopkins per gettare le basi della riforma del team di Moto GP. Venne fatta la proposta a Chris e lui, non attese nemmeno un momento a firmare per la Casa di Hamamatsu passando immediatamente ai GP. Una scelta azzardata, a posteriori forse una scelta sbagliata ma sicuramente una scelta di carattere! E si sa.. il carattere ai piloti australiani di certo non è mai mancato!

sabato 11 febbraio 2012

Steve McQueen
















Sulle pagine di Cesena Bikers oggi scrivo di un mito. Parliamo di un uomo che di professione non faceva il pilota bensì l’attore ma, come per i “piloti veri”, la velocità e lo spirito competitivo, erano parti integranti del suo DNA. Steve McQueen poteva tranquillamente vivere “sugli allori” della fama e dei dollari guadagnati sui set dei film nei quali aveva recitato. Per l’epoca, e stiamo parlando degli anni Sessanta, era arrivato ad ottenere dei cachet da oltre tre milioni di dollari a film! Invece, si è sempre messo in discussione con il cronometro: “Gareggiare è la vita, tutto quello che viene prima o dopo è solo attesa”, era solito dire. Solo ed esclusivamente un pilota vero può pensare, e dire, qualcosa del genere. A chi gli chiedeva perché rischiasse la sua carriera, oltre che naturalmente la sua vita, gareggiando in auto o moto quando, poteva benissimo condurre una vita agiata e “lontano dai pericoli”, rispondeva seccamente: “Mi piace gareggiare perché chi ho di fianco non si preoccupa affatto di chi io sia, ma pensa unicamente a battermi!”. La sua infanzia è stata molto difficile. A proposito di essa, in una intervista commentò: “ Non ho avuto né l’amore di una madre né l’autorità di un padre a guidarmi..”. Infatti McQueen non conobbe mai il padre e crebbe con una madre alcolizzata. Da adolescente finì in riformatorio. Era dislessico e affetto da una grave infezione che gli tolse quasi completamente l’udito dall’orecchio sinistro. Per lui furono momenti bui, come ricorderà da adulto: “Mi sentivo perso ed abbandonato, credevo di essere un completo incapace”. Uscì da questa situazione, contando solamente sulle proprie, “vivendo per se stesso, senza dover rispondere a nessuno delle sue scelte”. Giunto al successo, non dimenticò il suo passato fatto di sacrifici: “Ho voluto fare l’attore per sfuggire alla comune settimana lavorativa di 40 ore. Ora ne lavoro 72, traete le vostre conclusioni”. E a proposito della sua carriera di attore diceva: “Recitare e andare in moto, non credo siano mestieri per persone adulte”. Steve uscito dal riformatorio si arruolò in marina, ha fatto il taxista, il barista, lo scaricatore di porto. Per guadagnare qualche dollaro si è iscritto a gare di nuoto. Sosteneva che il denaro fosse per lui la fonte della libertà e non la ricchezza, ossia solamente un mezzo che gli permettesse di vivere le proprie passioni! Di lui, il suo migliore amico diceva: Steve è la migliore persona che si possa avere al fianco ma anche il peggior nemico che si possa incontrare”. McQueen non si fece fagocitare dal successo planetario che la sua brillante carriera di attore gli era valsa. Schernendosi diceva “Un attore è una marionetta manipolata da una dozzina di persone. Le corse, pur necessitando della medesima concentrazione di quella richiesta sul set, sono un impegno molto più dignitoso”. Aggiungeva inoltre:”non so ancora se sono un attore che gareggia o un pilota che recita”. Forte della sua affermazione, nel 1964 si prese 18 mesi di congedo dal cinema per dedicarsi alla sua grande passione per le corse partecipando alla famosissima “6 giorni internazionale di enduro” (International Six Days). Faceva parte della selezione che rappresentava gli USA. Amante delle Triumph, ha quasi esclusivamente corso in sella alle moto di Hinckley. Tra i suoi sponsor c’era la Cosmopolitan, azienda statunitense impegnata nell’import-export e nella distribuzione nel mercato nazionale statunitense. Quando tra la Benelli e la “Cosmo” venne raggiunto un accordo attraverso il quale l’azienda italiana avrebbe fornito a quella americana i sui ciclomotori da vendere in scatola di montaggio e, successivamente, la sua “ammiraglia” ossia la tornato 650, nel 1968 Steve McQueen giunse a Pesaro come uomo immagine della “Cosmo”. Si incontrò con il nostro amato Renzo Pasolini e girò nella pista interna della Benelli, in sella ad una Tornado. I presenti hanno sempre raccontato dei “numeri da paura” fatti da McQueen e Paso. Alla fine, a tutta riprova della sua competenza tecnica diede anche dei suggerimenti circa al telaio di cui dotare quella moto per permetterle di fare breccia anche nel mercato USA. Oltre a saper condurre magistralmente sia le automobili che le motociclette, aveva infatti ottime cognizioni di meccanica ed amava curare personalmente la manutenzione dei propri mezzi. Oltre a recitare, divenne anche coproduttore di un film dove l’auto era protagonista: Bullit. In quella pellicola la facevano da padrone una splendida Ford Mustang Fastback V8 GT ed una grandiosa Dodge Charter V8 440. Nel 1970 partecipò ad una 12 Ore di Sebring, gara di Endurance per automobili, guidando una Porsche. Nonostante avesse una gamba ingessata a causa di una caduta in moto, si piazzò al secondo posto. Nel film “24 ore di Le Mans”, rifiutò la controfigura offertagli per girare le scene più pericolose al volante di una Porsche 917 (allora modello di punta per le gare di Endurance della Casa tedesca). Famosissimo fu poi il “documentario” “Il Rally dei Campioni” nel quale si parla di motocross. Steve McQueen vi partecipò con grande entusiasmo, al fine di promuovere al grande pubblico uno sport motoristico che sino ad allora era riservato ad una “nicchia” di appassionati. L’intento era quello di far si che la gente sapesse che “non si trattava di un mondo di delinquenti senza fede e legge”. Nel 1963 ottenne la definitiva consacrazione come celebrità del grande schermo grazie a “La grande fuga”. La scena in cui in sella ad una Triumph TR6, camuffata da moto tedesca del secondo Conflitto Mondiale, cerca di saltare il confine che lo separa dalla Svizzera e quindi dalla libertà, è nella storia del cinema. Visse una vita a “gas spalancato”. La sua passione per le donne e la sua conseguente fama di playboy erano leggendari. Ebbe tre matrimoni. Nella sua carriera di attore recitò in trenta pellicole. Nel suo garage vantava 55 auto e 210 moto oltre a 3 aerei. McQueen morì a causa di una malattia incurabile nel 1980. A oltre trent’anni dalla sua scomparsa è ancora un mito che ispira ancora pubblicitari, editori e registi. La sua eleganza ed il suo stile di vita sempre al limite hanno fatto si che egli rimanga per sempre The King of cool, il re dello stile. E come poteva essere altrimenti per un che amava dire di se: “ E’ solo quando vado veloce in auto o in moto che.. mi rilasso veramente!”?

lunedì 6 febbraio 2012

Meteore: tanto veloci in pista quanto veloci a sparire..











Ci sono piloti che hanno lasciato un’impronta sul terreno dei GP come: Masetti, Duke, Hocking, Surtees, Hailwood, Agostini, Read, Sheene, Roberts, Spencer, Lawson, Rainey, Doohan per citare alcuni tra i Grandi della Classe “Regina”; Taveri, Ubbiali, Provini, Redman, Villa, Nieto, Cecotto, Ballinghton, Mang, Lavado, Pons, Cadalora, Biaggi, Capirossi e tanti altri ancora nelle Classi “Minori”. Non occorre elencare tutti i Campioni del Mondo di motociclismo per parlare di “questa gente” che con le proprie azioni ha lasciato un segno indelebile nella storia del nostro amato sport, contribuendo a scriverne la storia a suon di vittorie di gare e titoli. Ci sono poi piloti che hanno vinto poco o nulla, ma che comunque hanno dato il loro grande contributo nel rendere leggendario il motociclismo. A questa razza di piloti, appartengono coloro che pur essendo dotati di un talento smisurato (che spesso li ha resi i più veloci in pista), per svariati motivi (legati alla loro irruenza, al mezzo meccanico inadatto, agli infortuni, alla loro scarsa intelligenza tattica..) hanno ottenuto meno di quanto avrebbero meritato. Fanno parte di questa cerchia ad esempio: Pasolini, Lucchinelli, Mamola, Haslam, Gardner, Schwantz, Ueda, Kocinski, Abe, Barros. Piloti velocissimi, sempre al limite! Il pubblico li ha amati ed idolatrati. Non importa se poi i Mondiali li ha vinti qualcun altro: loro ci mettevano il cuore e l’anima, dando spettacolo ad ogni curva e calcando la scena per diversi anni all’insegna del: “Quest’anno è andata male, ma l’anno prossimo sarà quello giusto!”. Entrambe queste due tipologie di piloti rimarranno per sempre nella storia del motociclismo e nella memoria degli appassionati. Esistono poi dei piloti che hanno illuminato per un attimo il cielo, bagliori che si sono subito spenti, meteore appunto! Tra loro, c’è chi ha vinto una gara mondiale soltanto e dava l’impressione di poterne vincere altre cento e chi, invece si è fermato o è stato fermato dalla sorte. Addirittura c’è chi ha vinto un titolo (o anche due), ed era così forte che pareva lanciato nell’Olimpo ma poi per qualche misterioso motivo si è perso (a tal proposito potremmo dire che il nome di Freddie Spencer potrebbe essere iscritto anche in questo elenco..), ha avuto un grave incidente che gli ha tarpato le ali per sempre (il nostro Franco Uncini fa parte, purtroppo di quest’ultimo caso..), oppure si è fermato sul più bello, senza più trovare dentro di se la voglia di correre in moto. Il motociclismo si sa, è uno sport duro, in grado di spezzare le ossa e la mente. Non bisogna infatti essere solamente forti di scheletro (cosa fondamentale altrimenti ti rompi alla prima, banale scivolata..) ma occorre essere soprattutto forti nella testa. Durare nel tempo è impegnativo: anno dopo anno per un pilota l’impegno mentale si fa sempre più consistente. Il grande campione è colui in grado di saper evolvere il proprio modo di correre ed il proprio stile di guida nel corso della carriera. Infatti un pilota che ha la fortuna di gareggiare a lungo, deve saper adeguarsi alle svolte tecniche che l’evoluzione delle moto, degli pneumatici e dei regolamenti impone, altrimenti si passa dalle posizione di vertice a quelle di coda.. Senza assolutamente voler esser di parte, porto come esempio a questo concetto Valentino Rossi, Giacomo Agostini e Mike Hailwood. Rossi ha vinto l’ultimo Mondiale della 500 a due tempi, si è fatto trovare pronto con la venuta dei 1000 a quattro tempi ed ha trionfato anche con le 800. Sicuramente ha cavalcato sempre mezzi ufficiali ed ha avuto grandi tecnici al suo servizio, ma quale grande campione non ne ha avuti? Agostini, è stato il grande alfiere della MV Agusta. Ha trionfato in ogni dove con quella moto sia nella 350 che nella 500. I suoi detrattori possono dire che non aveva avversari. Sicuramente era nel team più forte e cavalcava la moto più veloce, ma quando è passato alla Yamaha (a causa dei conflitti interni in seno alla MV che lo vedevano coinvolto insieme al suo compagno di squadra Phil Read), è rimasto un vincente, trionfando con la 350, la 500 e la 750. Ago vinse anche con le moto nipponiche a due tempi, nonostante avesse guidato per tutta la sua carriera solamente delle quattro tempi. Hailwood? Beh cosa c’è da dire su di un pilota che al TT correva in 4 o 5 classi e le vinceva tutte? Eclettico, formidabile, unico! Tornando al tema principale del nostro discorso che ci vede concentrati sulle “meteore” del motociclismo, possiamo partire col chiederci: che fine ha fatto ad esempio Ivan Goi? Di lui ricordiamo che nel 1996 a Zeltweg (in Austria) fu il più giovane vincitore di sempre di un GP. Dopo di quella disputò ancora quattro stagioni iridate, ma forse qualcosa si guastò nei suoi meccanismi se meglio di un quinto posto non riuscì più ad ottenere. Sempre in 125, chi si ricorda della finlandese Taru Rinne? Una biondina che viaggiava sola con il camper nelle strade di tutta Europa. Era anche l’unica che in pista non temeva i maschi: a Hockenheim nel 1989 restò in testa alla gara davanti a Gianola e Crivillé e non solo per un giro! Quella volta fu settima e, arrabbiata! Correva su una Honda molto veloce. Di li a poche gare però cadde e rimediò una brutta frattura ad un ginocchio. Non si riprese mai da questa botta, lasciò e da allora “nessuno l’ha più vista”. Carriere corte, carriere fulminee, qualche volta tragiche e altre volte solamente misteriose. Perché, Jim Filice, californiano di Modesto come Kenny Roberts, smise di correre dopo due podi in due gare a cui prese parte? Strano fenomeno. Si presentò a laguna Seca nell’aprile del 1988 in sella ad una Honda e “le suonò” tra gli altri anche a Kocinski e Cadalora! L’anno successivo si presentò nuovamente come wild-card, sempre sul tracciato californiano, ottenne l’assistenza tecnica di Erv Kanemoto e terminò la gara al secondo posto, tra John e Luca. Poi sparì. E qui si innesta un filone particolare delle meteore in moto: quelle dei vincitori della gara di casa, piloti che disputano soltanto quella (le wild-card appunto), oppure vanno molto forte solo li, mentre altrove finiscono irrimediabilmente lontano dal podio. I giapponesi sono stati da sempre degli specialisti in questa particolare attività: Kasuya, Hasegawa, Taira, Kobayashi e Myazaki. Ma questa non è solo una storia nipponica in quanto fanno parte dei “solo in casa” anche i tedeschi Fritz Reitmaier e Edmund Czihak, specialisti del vecchio Nurbiurgring. E poi ancora gli inglesi che nel TT hanno sempre trovato la loro ribalta. Un esempio su tutti fu Phil Carpenter. Anche Italia ed Argentina hanno avuto il loro ruolo in questa attività: Jorge Kissling a Buenos Aires e Fausto Ricci a Misano. Nel caso dei piloti inglesi e tedeschi ci può essere la scusante della loro magnifica conoscenza di tracciati lunghi e pericolosi come il Nurburgring appunto e come il tracciato del TT dell’Isola di Man. Nel caso del pilota argentino va detto che spesso il suo GP di casa era l’ultimo della stagione e, se i giochi erano fatti in termini di classifica iridata, i team europei non si sobbarcavano una così lunga e dispendiosa trasferta. Quindi quella determinata prova del Mondiale si trasformava in realtà in “una prova del Campionato argentino, dove Jorge aveva la vita facile. Diverso è invece il discorso per il nostro fausto Ricci. Misano non era una pista impossibile da interpretare e all’appuntamento italiano i big c’erano tutti. Il fatto è proprio che Fausto a Misano era velocissimo, forse imbattibile. Quella domenica del 1984 poi fu fenomenale! Diede paga a Wimmer e a Rainey. Tutti e tre erano in sella delle Yamaha 250 e Ricci andò a vincere con ben 8 secondi di vantaggio sui rivali! Perché non abbia avuto un seguito è un mistero. Chissà quali fattori sono intervenuti? Possiamo solamente presumere: la squadra che non ha girato, elementi tecnici o umani? Dietro ad ogni carriera “monca” c’è sempre qualcosa che non ha funzionato e spesso, il pilota non ne ha alcuna colpa. Le meteore italiane sono state tantissime. Sin dagli albori. Il Campionato Mondiale di velocità è nato nel 1949 ma uno come Gianni Leoni da Castelluccio, già famoso guzzista anteguerra su Condor e Dondolino, fece in tempo a vincere una prova iridata con la Mondial 125, l’8 aprile del 1951 a Barcellona, ma il 6 maggio morì a Ferrara in sella alla stessa moto. Rotture meccaniche, incidenti, cadute mortali. La storia del motociclismo ne è piena. Quanto avrebbe vinto Angelo Bergamonti senza il mortale incidente del 1971 a Riccione? E Otello Buscherini che aveva già trionfato in 125 e 350, prima di morire al Mugello nel 1976? E parlando di quella dolorosa domenica come non ricordare anche Paolo Tordi, deceduto poco prima di Buescherini? Sport spietato, o qualche volta semplicemente ingeneroso, come è stato con Raimondo Toracca. Meritò la MV 500 ufficiale lasciata libera per qualche gare dall’infortunato Bonera. Ottenne dei buoni piazzamenti e poi, al ritorno del pilota titolare, sparì. Vinicio Salmi che con le Yamaha della scuderia Diemme di Lugo, sembrava lanciato verso il successo, poi, a causa di un incidente smise con le moto e se ne andò negli States a gareggiare nella Formula Indy. Ricordiamo Guido Paci, “il privato più veloce del mondo”, scomparso alla 200 Miglia di Imola del 1983 nei pressi della curva Tosa, proprio quando stava per ottenere la “moto giusta” dalla Honda per dimostrare a tutti il suo valore, dopo anni di gavetta in sella a moto poco competitive. Non italiano, ma comunque “italico” (in quanto di San Marino), vogliamo non citare a tal proposito Manuel Poggiali? Campione del Mondo con la Gilera in 125, Campione del Mondo all’esordio con la Aprilia in 250 e poi.. più nulla. Problemi personali o di personalità? Non si sa, fatto sta che una delle più grandi promesse del motociclismo degli ultimi anni è sparita nel buio quando da lui ci si sarebbe aspettato una sfolgorante carriera costellata di successi nella Classe Regina. Recentemente, tanti fenomeni della Superbike che hanno tentato il salto nei GP, sono purtroppo rimasti scottati: Scott Rusell (campione del Mondo Superbike nel 1993 con la Kawasaki), Troy Corser, Troy Bayliss e Noriyuki Haga. Tutta gente che ha fatto la storia della Superbike ma che nei GP non ha trovato la propria strada. Haga poi in particolare sta alla Superbike esattamente come Randy Mamola sta ai GP: l’amatissimo eterno secondo! Sempre in tema di Superbike come non ricordare Mauro Lucchiari vincitore di due strepitose manches a Misano con la Ducati, in grado di bastonare in quell’occasione gente come Fogarty e poi.. più nulla! Sparito nella mediocrità del centro dello schieramento e poi infine ritiratosi. Ancora nelle derivate della serie ricordiamo la meteora Baldassare Monti “Sarre” o “Baldaschwantz” come veniva chiamato. E per ultimo il talentuoso quanto completamente pazzo Antony Gobert del quale dopo alcune performances di assoluto valore, si sono completamente perse le tracce. Tornando ai GP e parlando delle classi “intermedie” ricordiamo il francese Jean-Louis Tournandre che con una sola vittoria si è laureato Campione del Mondo della 250 nel 1982. Egli ha comunque fatto meglio di Emilio Alzamora, campione del Mondo nella 125 nell’anno 1998 (ai danni di un giovanissimo Marco Melandri) senza vincere neppure una gara! Più forte di tanti altri era felice Agostini, fratello minore del grande Ago. Negli anni Settanta dopo aver fatto bene nella regolarità, provò a correre anche nei GP. Gareggiò un 125 e 250, dando prova di un grande talento ma poi. Su consiglio del fratello maggiore, data la pericolosità delle corse in quegli anni, appese il casco al chiodo. Una delle meteore più forti di sempre fu lo statunitense Pat Hennen. Precursore “dell’american wave”, venne in Europa giovanissimo, dall’Arizona. Tre stagioni nella Classe Regina. Tre vittorie. Poi nel 1978 quando in sella alla Suzuki 500 ufficiale rappresentava l’unico vero ostacolo tra Kenny Roberts e il suo primo titolo iridato, volle provare il brivido del TT dell’Isola di Man. Una caduta rovinosa in quella gara lo costrinse per sempre su di una sedia a rotelle. Prima di Hennen ci fu un altro americano che poteva rappresentava una grande promessa per il motociclismo mondiale: Randy Cleek. Lo statunitense morì nel dopo corsa della 200 Miglia di Imola del 1977: mentre si recava in albergo a bordo di un’automobile insieme ad alcuni suoi meccanici si scontrò frontalmente con un’altra vettura. Nessuno scampò a quel terribile incidente. Qualche ora prima di lui, in gara, aveva trovato la morte il suo connazionale Pat Evans, sbalzato dalla moto alla velocissima curva del Tamburello. Infine il più forte di tutti, sicuramente la meteora più luminosa del firmamento motociclistico: Jarno Saarinen. Spesso iscritto nella ipotetica Top-five dei migliori piloti di tutti i tempi, il “Finlandese Volante” morì in uno degli incidenti più tragici che la storia del motociclismo ricordi: quello di Monza del 20 Maggio del 1973 dove insieme a lui rimase ucciso anche il suo grande rivale Renzo Pasolini. Classe 1945, apparve sulle scene del mondiale ne 1970 accompagnato dalla bellissima ed onnipresente moglie Soili. Girava l’Europa al volante di un furgone della Volkswagen. Faceva tutto da solo. Nelle gare italiane arrivava in suo aiuto un generoso emiliano di nome Domenico Battilani. Jarno mostrò al mondo uno stile di guida tutto nuovo: sporgeva il corpo all’interno della curva e abbassava il ginocchio sino a quasi sfiorare l’asfalto. Di fatto fu colui che introdusse il moderno sistema di portare la motocicletta. Velocissimo e spericolato, sapeva condurre al limite le sue Yamaha 250 e 350, interpretando in maniera magistrale le moto spinte da propulsori a due tempi. Saarinen si laureò campione del Mondo nella classe 250 nel 1972 con un punto di vantaggio su Pasolini. La Yamaha lo volle come suo pilota ufficiale e nella stagione 1973 corse in due categorie: 250 e 500. Nella quarto di litro dopo tre gare aveva fatto segnare tre vittorie: GP di Francia, Austria e Germania. In 500 aveva vinto le prime due gare e nella terza dopo aver fatto registrare il giro più veloce, si ritirò per la rottura della catena. Nessuno poteva credere che questo giovane Finlandese, in sella ad una moto così nuova si fosse messo dietri i “Mostri Sacri” del motociclismo quali erano Giacomo Agostini e Phil Read in sella a quelle MV Agusta 500 che da “sempre” dominavano nella Classe Regina. ”. Saarinen era simpatico e sorridente. Sul bagnato era un vero portento: Agostini e Read con lui avevano trovato pane per i loro denti! Jarno quell’anno aveva anche vinto la 200 Miglia di Daytona e quella di Imola, primo pilota della storia a riuscire in questa impresa. In entrambe le occasioni corse magistralmente, in sella alla “piccola” Yamaha 350 derivata da quella da GP contro le 750 “derivate dalla serie”. Quel 20 Maggio del 1973, alla Curva Grande del circuito di Monza, al primo giro del GP era in scia di Renzo Pasolini, in lotta per la seconda posizione. La moto di Pasolini sbandò (forse per un grippaggio o forse per dell’olio perso dalla moto di Villa durante la gara della 350 che si era disputata poco prima), uscì di strada e rimbalzò in pista finendo addosso a Jarno. In quell’inferno caddero in 12. Paso e Jarno non si rialzarono mai più.. La storia di Saarinen è purtroppo dolorosamente simile a quella di un altro grandissimo pilota : Marco Simoncelli. Anche il nostro Campione ha vinto un Mondiale in 250. Anche lui stava arrivando alla ribalta nella Classe Regina, quando nel GP della Malesia del 2011, sul tracciato di Sepang, in seguito ad un terrificante incidente, ha trovato la morte..

sabato 4 febbraio 2012

Carlo Ubbiali: Il Cinese e la Volpe




Sino a quando Giacomo Agostini, nel 1971, non ha colto il suo decimo titolo mondiale, è stato, con nove iridi, il pilota più titolato del motociclismo, solo affiancato, nel 1967, dal leggendario Mike Hailwood. Potrebbe bastare questo elemento statistico ad innalzare Carlo Ubbiali nel ristretto numero dei più grandi di sempre. Eppure il pilota nato a Bergamo il 22 settembre 1929, non ha goduto di un’anime, elevata considerazione e, nella graduatoria dei campioni di ogni epoca, è stato spesso posto in posizione di subordine rispetto a chi, rispetto a lui, ha avuto una carriera meno ricca di successi e anche di durata più contenuta. Questo è accaduto un po’ per il fatto che Ubbiali si misurò “soltanto” nelle classi più piccole, 125 e 250, un po’ a causa del suo carattere introverso, che lo rese meno popolare di altri spumeggianti coprotagonisti dell’epoca, quali l’acerrimo rivale Tarquinio Provini o l’anticonformista Umberto Masetti. Eppure il “Cinese” ha avuto tra i critici, e anche tra i colleghi e rivali, schiere di estimatori. Stima meritata se si valutano, oltre ai risultati, il talento, la seria applicazione, l’intelligenza e soprattutto la scaltrezza. Se l’aspetto fisico: il volto caratterizzato da due occhietti piccoli e a mandorla e una statura minuta (appena 160 cm di altezza) gli erano valsi l’appellativo di “Cinese”, le sue maliziose strategie avevano certificato quello di “Volpe”. Ubbiali ama ricordare ancora oggi che la sua prima partecipazione a una manifestazione motociclistica risale al 1936, quando ad appena sette anni, si mise alla guida della MM del padre per percorrere la strada che da Bergamo porta a Milano, con l’intenzione di partecipare al grande motoraduno “La rosa d’inverno”. Carletto allora nemmeno toccava con i piedi per terra, a quello pensava il papà Giovanni, seduto sul sellino posteriore.. Un bel po’ di pratica su due ruote la fece poi durante la guerra, trasportando su di un sidecar Moto Guzzi, i feriti da Dalmine all’Ospedale di Bergamo. Aveva 12 anni. Da un ragazzo così precoce, per di più cresciuto “nell’humus” idoneo (il padre corridore dilettante, titolare di una concessionaria di moto con annessa officina dove “il Carletto” andò presto a lavorare) era lecito aspettarsi un non meno precoce esordio in gara. Anche se bisogna considerare una situazione ben diversa da quella contemporanea nella quale i “baby piloti” di 15-16 anni sono la regola come i Campioni del Mondo non ancora maggiorenni. Per questo, dopo qualche gara di minore importanza nella regolarità, stupisce la cronaca del suo esordio nella velocità: non aveva ancora compiuto i 18 anni, età minima per gareggiare a quei tempi. Per poter correre aveva falsificato la firma per l’autorizzazione paterna; in quanto alla moto, dato che non ne possedeva una, riuscì a ottenere in prestito una DKW 125 a due tempi, del capo della Squadra Mobile di Bergamo, il capitano De Luca, promettendo in cambio una revisione integrale, comprensiva di riverniciatura e lucidatura delle cromature. La gara: il tradizionale circuito delle Mura di Bergamo. Il giorno: 30 marzo del 1947. Il risultato: primo assoluto. All’esordio! La gioia però durò ben poco. La MV (proprio la Casa alla quale legherà la maggior parte dei suoi successi) fece reclamo, il suo inganno smascherato e lui s qualificato. Ancora qualche gara minore, poi la convocazione da parte del Conte Domenico Agusta in persona che gli offrì una MV 125 ufficiale per il Gran Premio della Fiera di Milano, preludio ad un ingaggio per la stagione successiva. A 20 anni, nel 1949, era già pilota ufficiale MV, gareggiava con successo nelle gare di scooter (all’epoca molto popolari nel nostro Paese) e anche alla Sei Giorni Internazionale di Regolarità in Inghilterra, dove vinse la medaglia d’oro. Poi a fine stagione, a sua insaputa, il padre ed il fratello Maurizio, sottoscrissero per lui il contratto che lo legò alla Mondial. Maurizio era il fratello maggiore di Carlo Esso fu la persona che risultò determinante nella sua carriera. Carlo non se ne separava mai: Maurizio era suo accompagnatore, consigliere, consulente, una sorta di altra metà nell’elaborare e attuare anche le strategie più maliziose. Celebre è rimasto il trucco con il quale Ubbiali ingannava i suoi avversari nascondendo il proprio potenziale nel corso delle prove. Percorreva la prima metà del giro ad andatura contenuta e, al massimo, la seconda metà oltre la prima metà del giro successivo, per poi tornare ad un ritmo blando verso i box. Così solo il fratello, cronometro alla mano, era al corrente del vero tempo limite del “Cinese”: ad avversari, compagni di squadra, meccanici del team, cronometristi e agli addetti ai lavori tutti, risultava quindi che Carlo avesse un passo ben più lento di quello che in realtà era in grado di tenere. Il contratto con la Mondial, la più efficace 125 di quel 1950, fu un’idea di Maurizio. Il giovane “Cinese” si trovò in squadra in condizione di subordine a Leoni e Ruffo, che lo precedettero di poco nella graduatoria del Mondiale ai primi due posti, ma ebbe già l’occasione di cogliere, a Dunrod, il primo successo in carriera, in una gara di campionato, il GP dell’Ulster. Interpretò anche una gara eccezionale ed eroica: la Milano-Taranto., che stava vincendo in sella ad una 125 a quattro tempi (Impresa incredibile per una moto di quelle caratteristiche sulla massacrante distanza di 1300 chilometri) quando il propulsore della sua moto esplose sul rettilineo di arrivo. Tagliò il traguardo a spinta, aiutato anche da alcuni spettatori. Fu squalificato, ancora su reclamo della MV Agusta. L’anno successivo era già Campione del Mondo, vincendo gara e titolo a Monza, nel GP delle Nazioni. Poi divenne vice-iridato nel 1952 alle spalle di Sandford, ma a fine stagione non poté resistere all’offerta milionaria della MV campione del Mondo. Nel biennio 1953-1954 si batté come un leone, ma era il momento delle “frecce d’argento” a due ruote: le tedesche NSU, insuperabili sia in 125 che in 250 con Haas e Hollaus. Poi nel 1955 tornò al vertice nella 125 e fece l’esordio occasionale, in sostituzione all’infortunato remo venturi, sulla 250. Pista di Monza, ultima gara di campionato: c’erano quattro NSU, velocissime. Lui vinse in volata regalando alla MV il Titolo Marche. Fu quello il passaporto per il doppio impegno, 125 e 250, a partire dalla successiva stagione. Dominò: in entrambe le classi vinse 5 dei 6 GP in calendario e, naturalmente, i due titoli. Era pronto per affrontare nel 1957 la tremenda sfida delle rinnovate, straordinarie Mondial. Nella 125 aveva contro l’acerrimo rivale Tarquinio Provini e nelle prime due gare per ciascuno ci fu un primo ed un secondo posto; nella 250 l’avversario era il velocissimo Sandford (che lo aveva battuto in 125 5 anni prima). Dopo due prove la classifica della quarto di litro portava in cima proprio il nome del pilota inglese, Ubbiali aveva comunque ottenuto un successo. Al terzo appuntamento della stagione, sul tracciato di Assen, Carlo Ubbiali cadde in prova con la 250: dovette disertare la corsa olandese e i due successivi GP. I titoli sfumarono. A fine stagione, sfumò anche la possibilità di prendersi la rivincita nel 1958 sulla “odiata” Mondial, in quanto le case italiane: Mondial, Moto Guzzi e Gilera si ritirarono per “manifesta superiorità”. La MV invece continuò nella sua avventura iridata e la “Volpe” si ritrovò in casa l’avversario Provini. All’interno della squadra vennero stabiliti gli ordini di scuderia che prevedevano che i due piloti si sarebbero dovuti spartire equamente i successi: Ubbiali iridato nella ottavo di litro, Provini nella quarto di litro. L’accordo però saltò nel 1959 quando Il “Cinese” con malizia, suscitando numerose polemiche all’interno della Squadra (che restarono “vive” negli anni), si impose in entrambe le cilindrate. La cosa si ripetette anche nel 1960 quando Provini, esacerbato, lasciò la Squadra ed il rivale del campione diventò il fortissimo Gary Hocking, confermato dalla MV. “Ubbiali pensava molto al successo personale, ma questo era un vantaggio in quanto così facendo, contemporaneamente, esercitava l’interesse della Squadra” ricorda Arturo magni, direttore tecnico della MV Agusta. “Non era facile lavorare con lui, perché faticava a comunicare, temeva che le messa a punto della sua moto venisse copiata dai compagni di squadra. Anche per questo, le sue richieste ce le faceva all’ultimo momento. Non scopriva mai le sue carte: una vera volpe, un pilota con grande senso della gara, capace di tracciare sempre la traiettoria migliore”. Alla fine di quella stagione, Ubbiali, appena trentunenne, lasciò le corse. Sapeva che al fratello Maurizio, a causa di una grave malattia, sarebbe rimasto poco da vivere. Non se la sentiva di continuare da solo. Cos’ come forse non se l’era sentita di salire di cilindrata. “Questo non è vero!” ha sempre ribadito Carlo Ubbiali a chiunque abbia asserito questa cosa. “La quattro cilindri la provai e con ottimi tempi. Allo stesso modo feci registrare delle ottime prestazioni, ai limiti del mezzo secondo da Von Trips, quando provai in gran segreto (e più di una volta..) la Ferrari da F1. Poteva essere una buona opportunità quella di passare alle auto, ma continuai con le moto. E con le piccole cilindrate, perché a quell’epoca l’interesse dell’industria era di vendere quelle moto! Le “maxi” non avevano mercato in quanto.. non esistevano!”. Appeso il casco al chiodo, con all’attivo: 9 titoli mondiali (6 in 125 e 3 in 250), 39 vittorie iridate (26 in 125 e 13 in 250) oltre a 8 titoli italiani (6 in 125 e 2 in 250); Ubbiali si è sposato, ha avuto quattro figli, ha aperto a Bergamo un’attività commerciale di vendita d’auto. Un giorno ha pure suggerito al Conte Agusta di seguire con attenzione un giovane pilota emergente, di nome Giacomo Agostini. Salvo poi minacciare un ritorno alle corse, l’accendersi di una rivalità nuova ed impossibile quando a tutti fu chiaro che il giovane concittadino avrebbe superato il record di vittorie di nove Mondiali, detenuto dal “Cinese”..

giovedì 2 febbraio 2012

Le "Regine di Suzuka"

1983年 RS850R #3 F.マーケル/J.ベトゥンコート

1985年 RVF750 #1 G.コードレイ/P.イゴア

1991年 RVF750 #11 W.ガードナー/M.ドゥーハン

1992 RVF750 ワイン・ガードナー/ダリル・ビーティー

1993年 RVF750 #7 E,ローソン/辻本聡

1994年 RVF/RC45 #11 D.ポーレン/A.スライト

1995年 RVF/RC45 #11 A.スライト/岡田忠之

1997年 RVF/RC45 #33 伊藤真一/宇川徹

1998年 RVF/RC45 #33 伊藤真一/宇川徹

1999年 RVF/RC45 #4 岡田忠之/A.バロス

2000年 VTR1000SPW #4 宇川徹/加藤大治郎

2001年 VTR1000SPW #11 バレンティーノ・ロッシ/コーリン・エドワーズ/鎌田学

2002年 VTR1000SPW #11 コーリン・エドワーズ/加藤大治郎

2003年 VTR1000SPW #7 宇川徹/井筒仁康

2005年 CBR1000RRW #7 宇川徹/清成龍一

2007年 CBR1000RRW #33 岡田忠之/カルロス・チェカ

2008年 CBR1000RRW #11 清成龍一/カルロス・チェカ

Incredibile carrellata delle più famose moto della Casa dell'Ala dorata, che hanno preso parte alla classica gara di Endurance che si svolge ogni anno sul mitico "circuito salotto" nipponico.

Tratto da:
http://skylinezero17.cocolog-nifty.com/blog/2010/06/honda-77f2.html

8 ore di Sukuza 1992 - Quando gli uomini erano veri uomini e le motociclette vere motociclette..















Spettacolare filmato in sette parti dell'edizione 1992 della 8 ore di Suzuka.

Per saperne di più:
http://cesenabikers.blogspot.com/2009/01/la-8-ore-di-suzuka.html

mercoledì 1 febbraio 2012

GETULLIO MARCACCINI, UN VALENTE PILOTA RICCIONESE

L'amico Fosco Rocchetta ci ha fatto omaggio di un suo nuovo articolo che, con immenso piacere, vado quest'oggi a pubblicare su Cesena Bikers. Anche questa volta Fosco ci regala una bellissima storia di uomini e moto della nostra amata Romagna ed in particolare della sua città: Riccione. Buona lettura!

Su E' RUMAGNOL (traduzione IL ROMAGNOLO, una pubblicazione editoriale locale), più volte ho avuto modo di illustrare il notevole interesse che da sempre accompagna il motociclismo in Romagna. E' inoltre opportuno far presente che numerosa stampa ha sottolineato quello che può ritenersi un simpatico aneddoto: ovvero che mentre i romagnoli pronunciano il termine “è mutor”, nel fervore di questa parola dialettale, ancor più si coglie l'amore vibrante che gli abitanti di questa antica regione d'Italia nutrono per il mondo dei motori. A Riccione la passione per la moto ha suscitato grandi entusiasmi sin dalle “pionieristiche” competizioni che avevano luogo negli anni Venti del Novecento, presso l' “ingar” (dall'inglese “hungar”). Con questa espressione dialettale i riccionesi identificano tuttora l'area (ora sede del Luna Park estivo), che fu utilizzata come aviorimessa negli anni del primo conflitto mondiale.
Nel secondo dopoguerra, a partire dal 15 agosto 1946, le gare si terranno sul lungomare e strade adiacenti, con una crescente partecipazione di pubblico, fino al 4 aprile 1971, in cui, sull'asfalto bagnato, tragicamente, perse la vita il centauro cremonese Angelo Bergamonti.
Negli anni Sessanta, e sino ai primi anni Settanta dello scorso secolo, tra i protagonisti della “Mototemporada Romagnola”, ossia di quelle indimenticabili gare che si disputavano sui vari circuiti cittadini (Cattolica, Cesenatico, Milano Marittima, Riccione, Rimini), merita a pieno titolo d'esser annoverato un pilota riccionese: Getullio Marcaccini (1938-1989), scomparso prematuramente in seguito ai postumi di un incidente stradale. Nativo di Gemmano, ha conseguito importanti risultati, tra cui il titolo cadetti e junior nel 1959 e 1960 del campionato italiano di velocità nella classe 125 c.c. , Getullio Marcaccini rappresenta un esempio di genuina dedizione ad uno sport affascinante quanto pericoloso: in quegli anni si correva quasi sempre lungo le strade cittadine, tra gli edifici, muri, pali della luce, quasi a contatto della gente, senza alcuna via di sicurezza, con caschi e tute che assai poco proteggevano i piloti in caso di cadute. Meccanico di professione, privo di sponsor, con scarse risorse economiche, anche allora indispensabili per poter primeggiare, è ricordato con affetto dagli amici e da quanti lo hanno conosciuto, soprattutto per la semplicità di vita e le sue qualità umane. Ha corso prevalentemente in sella ad una Aermacchi 350 e 500 c.c., rivaleggiando coi più celebrati campioni dell'epoca quali: Giacomo Agostini, Phil Read, Mike Hailwood, Walter e Francesco Villa, Renzo Pasolini, Silvio Grassetti, Angelo Bergamonti, Luigi Taveri, Remo Venturi, Alberto Parlotti, Guido Mandracci, Alberto Pagani, Roberto Patrignani, Gianpiero Zubani, Vasco Loro, Emanuele Maugliani, John Cooper, diversi dei quali, ahimè, scomparsi in incidenti di gara, molto frequenti in quegli anni. Oltre ai titoli italiani in precedenza citati, Getullio Marcaccini si è aggiudicato la gara nella classe 125 del 6° Circuito Coppa Città di Fermo il 24 luglio 1960 in sella ad una Ducati, alla media di Km. 90,434. Sempre nello stesso circuito, l'anno successivo si classificava secondo, effettuando il giro più veloce alla media di Km. 99,274. Tra i piazzamenti raggiunti dal pilota nelle “mitiche” gare della “Mototemporada Romagnola”, si registra il 3° posto nel Circuito di Cesenatico del primo maggio 1962, nella classe 125 c.c., su Ducati, in una gara vinta da Francesco Villa su Mondial. Merita poi d'esser enumerata la quarta posizione ottenuta dal pilota riccionese nel campionato italiano classe 500 c.c. del 1971, fatto proprio dal pluricampione mondiale Giacomo Agostini. Il corridore romagnolo, quando ne ha avuto la possibilità, a sue spese, prendendosi dei giorni di ferie, ha anche partecipato ad alcuni appuntamenti del motomondiale, come il Gran Premio delle Nazioni di Monza (13 sett. 1970), giungendo 14° nella classe 350 c.c. su Aermacchi, e quello di Spagna ( 23 sett. 1972) nel Circuito del Montjuic (Barcellona), classificandosi 8°, questa volta in sella ad una Aermacchi 500.
Ritengo sia giusto ridestare la memoria di un pilota, che in maniera sobria e pacata, ha rappresentato degnamente Riccione in uno sport che in Romagna vanta le più gloriose tradizioni. La passione per il motociclismo Marcaccini l'ha trasmessa al figlio Roger, il quale dopo essersi cimentato in competizioni sin dalla tenera età, ha lavorato prima come tecnico presso vari team del motomondiale, ed ora come manager in una importante squadra.

di Fosco Rocchetta