lunedì 9 gennaio 2012

Accadeva 34 anni fa..













Nel 1978 arriva in Europa Kenny Roberts ed il Campionato del Mondo, dopo l’egemonia di Agostini e il regno di Barry Sheene conosce un nuovo dittatore.
“Nel porgere gli auguri di buone feste, colgo l’occasione per comunicare il mio ritiro dall’attività motociclistica iniziata il 19 luglio 1961 nella Trento-Bondone. Da quella corsa fino ad oggi ho riportato 311 vittorie, 15 titoli mondiali, 18 campionati italiani, correndo in tutte le classi. Ho preso questa decisione con enorme sacrificio. Mi sarebbe stato certamente più facile correre. Dal motociclismo ho avuto tutto e penso che, pur continuando, non potrei avere di più di quello che ho già avuto nella mia lunga carriera. Ringrazio tutti coloro che mi sono stati vicini, i giornalisti, gli sportivi, i miei meccanici, che hanno partecipato alle mie gioie ed ai miei dolori. Questa mia decisione, però, non comporta l’abbandono totale dell’attività agonistica, in quanto è mia intenzione, nella prossima stagione, dedicarmi con rinnovato entusiasmo alle quattro ruote”.
La prima novità del Campionato Mondiale del 1978 arrivò da questo comunicato stampa con cui Giacomo Agostini, alla vigilia del natale 1977, annunciava il suo passaggio alle quattro ruote. Un duro colpo per il motociclismo orfano del suo personaggio più titolato e carismatico, colui che nel bene e nel male aveva calamitato su di se l’attenzione degli appassionati e della stampa, anche di quella estranea al mondo delle due ruote. Con il ritiro del Campionissimo si chiuse definitivamente l’era dei grandi successi marcati MV Agusta di cui Agostini, con la vittoria al Nurburgring del 1976 era l’ultimo e geloso testimone. La sua assenza, però, non era l’unica novità della stagione ’78: la seconda arrivava dagli Stati Uniti d’America e precisamente dalla cittadina do Modesto in California e portava il nome di Kenny Roberts. Lo statunitense, dopo alcune vittoriose apparizioni in Europa (tra cui la 200 Miglia di Imola), decise di trasferirsi nel vecchio continente per partecipare al Mondiale velocità addirittura in tre classi: 250, 500 e 750. Roberts godeva dell’appoggio della Yamaha USA e poteva contare su due meccanici eccezionali: Kel Carruthers, iridato nel 1969 con la Benelli nella quarto di litro e Nobby Clark, ex meccanico di Hailwood e di Agostini. In patria aveva vinto praticamente tutto, gareggiando sia in pista che nel dirt-track. Nonostante questo biglietto da visita, furono in molti gli scettici che relegarono, a priori, il giovane pilota californiano al ruolo dell’outsider, sia per la sua scarsa conoscenza delle piste che per l’impegno in tre cilindrate, ritenuto da quasi tutti troppo affaticante. Bastarono però pochi GP e tutti si dovettero ricredere. Dal 1978 ad oggi sono passati 34 anni (ad ora 33 stagioni agonistiche) eppure sembra essere trascorso un secolo, tanto è cambiato il mondo delle corse in questi cinque lustri. Tutto è diventato più serio, professionale e si è persa lungo la strada quell’atmosfera “ruspante e zingara” del Continental Circus “prima maniera”. Il paddock non era disseminato di asettici motor home dai vetri fumè e di monumentali Hospitality messe a disposizione degli sponsor, ma somigliava più ad una disordinata tendopoli, dove l’odore dell’olio di ricino si mischiava a quello delle cucine da campo. La squadra del sopra citato Kenny Roberts, che era presa a modello per essere una delle più organizzate, aveva un furgone officina, la roulotte dei meccanici ed un van che oggi nessun pilota, nemmeno l’ultimo dei privati, prenderebbe in considerazione. L’elettronica, con i suoi sofisticati sistemi di rilevazione ed azione sulla dinamica della moto, non aveva ancora fatto la sua comparsa ai box. Niente elettronica quindi niente telemetria, così i riferimenti arrivavano dal pilota con la sua capacità di “ascoltare” e la moto e quindi comunicare con i meccanici per fornire loro il maggior numero di informazioni utili per poter migliorare il mezzo. Niente elettronica e quini niente controllo di trazione: esso risiedeva unicamente nel polso destro di chi portava in pista la moto. La sensibilità era l’unico mezzo a disposizione dei piloti per aprire il gas al fine di essere veloci ma di saperlo comunque dosare per non mettersi la moto “per cappello”. Nessuno poi si era ancora sognato l’esistenza di impianti televisivi a circuito chiuso, quindi immaginiamo di sistemi GPS per la rilevazione del mezzo sul tracciato! I meccanici seguivano tutto dal muretto dei box o da qualche curva particolare di ogni tracciato, per capire se moto e pilota “erano in palla” oppure no.. I team che nel 1978 disponevano di moto ufficiali erano veramente pochi e chi voleva vincere (soprattutto in 500, 350 e 250) doveva entrare in quelle squadre, altrimenti era tagliato fuori dalla lotta per la vittoria e doveva accontentarsi delle posizioni di rincalzo, con la speranza di farsi vedere da qualcuno “che contava”. Andare a punti non era importante solamente ai fini della classifica, ma era una vera e propria necessità perché con il premio gara si coprivano le spese e, molte volte, quel premio serviva per tornare a casa! Così i privati accettavano di correre su circuiti pericolosi, come gli stradali di Imatra e Brno, con alberi, muretti e rotaie ferroviarie a far da contorno alla pista, perché il rischio della caduta era accettato con consapevole fatalismo e la morte faceva parte del gioco, molto più spesso di quanto accade ai giorni nostri. Qualcosa però stava cambiando. Proprio nel 1978 il GP di Jugoslavia si trasferì da Abbazia sulla nuova pista di Rijeka; il TT dell’Isola di man era oramai uscito dal giro iridato e, alcuni piloti, primo tra tutti proprio Kenny Roberts, guardavano con diffidenza il Nurburgring (che però portò molta gloria al pilota californiano) e Spa-Francorchamps. La parola sicurezza iniziava a far capolino e il “Marziano” venuto dagli States divenne ben presto l’esempio del moderno pilota professionista (che vive in funzione delle corse) da prendere come riferimento. Roberts con quattro vittorie, tre secondi posti ed un terzo si aggiudicò il titolo della Classe 500 sbaragliando gli avversari guidati da Sheene (campione in carica), Cecotto, Hartog e Baker. Non solo: dimostrò una sicurezza, una forza mentale e un’abilità nella guida fuori dal comune, tanto da meritarsi l’appellativo di “Marziano”. L’unico che nella prima parte della stagione riuscì ad impensierirlo fu un altro pilota statunitense: Pat Hennen. Compagno di team di Barry Sheene nel team Suzuki Heron e alla sua seconda stagione completa in Europa, dopo le prime cinque gare era in classifica immediatamente alle spalle del “Marziano”, ma poi volle provare il brivido del TT, incappando in una spaventosa caduta che ne troncò la carriera, costringendolo su di una sedia a rotelle. Gli altri protagonisti di quella stagione giocarono il ruolo di comprimari, incapaci di frenare il ciclone venuto dagli States. Barry Sheene e Johnny Cecotto faticarono a tenerne il ritmo: il primo alle prese con una forma fisica piuttosto precaria; il secondo rallentato dalla propria Yamaha che, sebbene assistita direttamente dalla Casa di Iwata, rendeva meno di quella guidata da Kenny. Wil “Coyote” Hartog partì invece decisamente al rallentatore, ma a metà stagione “ereditò” la moto ufficiale di Hennen infilando subito una serie di risultati positivi. Vinse in Belgio ed in Finlandia sul pericoloso tracciato di Imatra. E gli italiani? A parte l’acuto di Virginio Ferrari, che si aggiudicò l’ultimo GP della stagione al Nurburgring, fu un vero disastro. Lucchinelli con le Suzuki gestite dal neonato team Cagiva si piazzò al nono posto della classifica generale, mentre Rossi, Rolando, Bonera e Becheroni finirono tutti nelle retrovie. Battuto da Roberts in 500, Johnny Cecotto si prese subito la rivincita nella 750cc aggiudicandosi il titolo con appena cinque punti di vantaggio sul fuoriclasse statunitense. Cecotto vinse tre GP, uno in meno di Roberts, ma fu più costante nel “portare a casa” piazzamenti. Agli avversari rimasero solo le briciole: Christian Sarron, terzo in classifica si aggiudicò il GP di Germania con una magistrale 1° manche sotto la pioggia. Steve Baker, campione del mondo in carica e primo statunitense a fregiarsi di un titolo iridato nel Motomondiale, non trovò il necessario feeling con la moto e la squadra (il Team Nava-Olio Fiat di Gallina), finendo sesto in classifica generale, dopo un campionato piuttosto opaco. Il miglior italiano fu Gianfranco Bonera, l’unico che partecipò regolarmente a tutte le prove, quarto in classifica. Della sua stagione va menzionata la bellissima vittoria sul tracciato di Assen e i diversi piazzamenti a podio. Per tutti glia altri italiani fu invece una stagione da dimenticare. Solo Lucchinelli si tolse qualche soddisfazione in prova, ma in gara il veloce pilota spezzino fu troppo spesso appiedato dalla scarsa affidabilità della sua Yamaha TZ. Se Roberts e la Yamaha costituirono un binomio imbattibile nella mezzo litro, Kork Ballington e la Kawasaki fecero altrettanto in 250 e in 350. Il pilota sudafricano, grazie alla superiorità delle “verdone”, impose subito un ritmo da schiacciasassi in entrambi i campionati, lasciando ben poche speranze agli avversari. Nella 350 Ballington fece addirittura il vuoto: si aggiudicò sei delle undici prove e solamente una volta non concluse, per grippaggio, nell’ultimo GP corso in Jugoslavia. Katayama, Hansford ed Ekerold, classificati nell’ordine dietro a Ballington, finirono lontanissimi in classifica, a oltre 50 punti dal vincitore. Nella quarto di litro l’unico vero avversario in grado di contrastare il baffuto sudafricano fu il suo compagno di squadra, l’australiano Gregg Hansford. Pilota velocissimo a dispetto del suo fisico possente, più adatto ad una 750 che ad una 250, Hansord vinse in Spagna, Francia, Svezia e Jugoslavia ma, purtroppo per lui accusò anche tre battute d’arresto che lo confinarono alla piazza d’onore. In classifica un vero e proprio abisso separava i due alfieri della Kawasaki dagli altri piloti: il francese Fernandez, terzo in classifica, in sella ad una Yamaha, accusò uno svantaggio di quasi 70 punti dalla vetta! Sulla vittoria di Ballington rimase l’ombra del solito Roberts che partecipò solo alle prime sei gare dimostrando la consueta sicurezza. Il pilota Statunitense si impose in Venezuela ed Olanda, piazzandosi al secondo posto in altre due occasioni (Spagna e Francia). Poi il “Marziano” decise di abbandonare la quarto di litro per concentrarsi sulle due massime cilindrate: 500 e 750, lasciando tutti nel dubbio sull’effettivo sviluppo del Campionato se si fosse presentato al via in tutte le prove. Anche in questa classe gli italiani dovettero accontentarsi del ruolo di comprimari. Mario Lega, campione del Mondo in carica, non andò oltre due terzi posti ( Finlandia e Cecoslovacchia). L’unica vittoria italiana arrivò grazie a Paolo Pileri, primo a Spa-Francorchamps con la Morbidelli. Se il 1978 fu avaro di soddisfazioni per i piloti italiano nelle medie e grosse cilindrate, la 125 sorrise ai nostri colori. Merito di Eugenio Lazzarini e Pier Paolo Bianchi che si contesero il titolo in sella a due realizzazioni di casa nostra: MBA e Morbidelli. Lazzarini vinse quattro GP e raccolse punti preziosi in quasi tutte le altre prove. Bianchi invece subì moltissimo la pressione del suo compagno di squadra, lo spagnolo Nieto, ingaggiato dalla Minarelli proprio per dare manforte al pilota italiano nella conquista del titolo. Bianchi incappò in una serie di errori, culminata con una rovinosa caduta ad Imatra. Questo spianò la strada al pilota pesarese, Lazzarini, verso la conquista del titolo iridato. La Minarelli si aggiudicò ben otto prove iridate ma, nessuno dei due piloti vinse il campionato del Mondo nel 1978. La minima cilindrata vide ancora protagonista Eugenio Lazzarini, questa volta in sella ad una Kreidler Van Veen. Il pilota italiano lottò per tutto il campionato con Ricardo Tormo, prima guida della Bultaco, ma sulla classifica finale influirono negativamente le due prove sfortunate in Italia e Cecoslovacchia, dove non conquistò punti iridati. Al Mugello la sua Kreidler rimase al palo e Lazzarini riuscì ad avviarla solo dopo essere stato doppiato due volte dagli avversari. In Cecoslovacchia, invece, fu costretto al ritiro per l’unico inconveniente tecnico della stagione. Il titolo finì così nelle mani di Tormo, capace di aggiudicarsi cinque delle sette prove in calendario. Un’ultima considerazione sui numeri di quel campionato: al termine della stagione si laurearono Campioni del Mondo sei piloti (otto se si tiene conto anche dei sidecar..). Troppi per il motociclismo che voleva iniziare a pensare in grande guardando alla F1 automobilistica, dove il campione era (ed è) uno solo. Qualcuno tra gli addetti ai lavori, iniziò a sollevare perplessità riguardo alla dispersione di forze ed interesse in così tante cilindrate. Si iniziò a parlare di classi noiose con poco seguito fra il pubblico (la 750 era tra queste..) e di altre che stavano diventando degli inutili doppioni, come la 250 e la 350. Ci si iniziò a muovere verso una politica di sfoltimento dei “rami secchi” che, negli anni ha portato prima alle sole tre classi 125, 250 e 500 poi, a partire dal 2002 all’introduzione dei quattro tempi con la Moto GP prima, la Moto 2 a seguire ed infine la Moto3. Una politica che a volte ha assunto toni un po’ troppo azzardati in quanto a partire dal 1988 le moto con propulsori a quattro tempi hanno avuto la loro ribalta con la creazione del Campionato Superbike. E si sa.. a volte neppure la pianta più robusta sopravvive alle potature più insensate, soprattutto in periodi di “forte secca” come quello che stiamo vivendo..

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