giovedì 29 gennaio 2009

Gary Hocking














































































































Gary Stuart Hocking (Caerleon, 30 settembre 1937 – Westmead Circuit, 21 dicembre 1962) è stato un motociclista zimbabwese. Nella storia del motociclismo, i piloti britannici e quelli provenienti dai paesi del Commonwealth britannico hanno sempre avuto un posto di primaria importanza, ottenendo innumerevoli titoli iridati. Hocking nacque a Caerleon in Galles, ma, quando ancora era un bambino, la sua famiglia emigrò in Rhodesia Meridionale (l’attuale Zimbabwe). Iniziò da ragazzo a scorrazzare in moto su circuiti in erba. Il suo primo contatto col motociclismo infatti fu attraverso il motocross. Solo in seguito si avvicinò alla velocità. Per poter seguire questa sua passione e dare il via alla sua carriera di motociclista, dalla Rhodesia, si dovette spostare in Sud Africa, in quanto il ricco stato Africano ai tempi era l’unico a vantare dei circuiti e un campionato competitivo. Appena fu maturo abbastanza, lasciò la Rhodesia (era il 1958) per approdare in Europa, inseguendo il sogno di una carriera da professionista nel motomondiale. Insieme con il suo amico e meccanico Nobby Clark, Hocking intraprese l'avventura nel vecchio continente. Va detto che Nobby Clark, era un ottimo meccanico e la sua carriera proseguì più tardi con campioni del calibro di Mike Hailwood. Clark si conquistò in breve tempo all’interno del paddock la fama di essere “una leggenda tra i cacciaviti". Nonostante la giovane età e l’inesperienza in ambito internazionale, Gary Hocking nel 1958 debuttò con grande successo nel motomondiale, ottenendo un fantastico sesto posto GP d’Olanda (Dutch TT) nella 500cc. Sempre in quella stagione giunse al terzo posto nel GP di Germania sul difficilissimo tracciato del Nurburgring e nel quarto e Hedemora (nel GP di Svezia). Il giovane pilota, a seguito di un così brillante debutto venne notato dalla MZ, scuderia della Germania Orientale, che nel 1959 gli offrì di portare in gara la sua 250cc. Hocking in sella alla moto tedesca si dimostrò estremamente competitivo riuscendo a concludere al secondo posto nella classifica finale, in virtù delle vittorie nel GP di Svezia e in quello dell’Ulster. Questo ottimo biglietto da visita gli permise di presentarsi al via della stagione 1960 con le migliori credenziali. La MV infatti nel 1959 tenne d’occhio il giovane pilota e gli offrì, il posto in squadra per la stagione 1960 dandogli pieno supporto. Hocking ricambiò la fiducia classificandosi secondo nelle categorie 125cc 250cc e 350cc . Questa stagione segnò l'inizio di un periodo di grande successo nella carriera del pilota della Rhodesia. In seguito alle dimissioni di John Surtees (che passò in F1) , alla fine della stagione 1960, Hocking divenne la prima guida della MV Agusta, dimostrando di meritare a pieno titolo questo ruolo lasciatogli dal suo predecessore. Nel 1961 infatti ottenne un fantastico doppio successo, conquistando il titolo mondiale sia nella classe 350cc che nella classe regina. Nonostante i risultati ottenuti, i rapporti tra Hocking e la MV Agusta, nel 1961 si logorarono. Il Conte Agusta, infatti rimase ammaliato dall’uomo nuovo del motociclismo britannico: Mike Hailwood. L’allora giovanissimo pilota inglese infatti aveva iniziato come privato la stagione, ottenendo una incredibile vittoria al TT e dimostrando al mondo il suo assoluto valore. Sul finire della stagione, a Mike Hailwood venne offerta la possibilità di entrare nella fortissima scuderia italiana. Il giovane pilota inglese, galvanizzato da questa irripetibile opportunità si lanciò in quello scorcio di stagione con una grinta e una determinazione tali, che unite alla sua classe cristallina, misero in ombra il suo capo squadra. Questa mossa ad opera della sua Scuderia, non piacque alla prima guida della MV, ed in breve i rapporti tra i due top-driver divennero molto tesi. La stagione 1962 partì all’insegna della grande rivalità tra i due campioni in sella alle loro MV Agusta a quattro cilindri. Si arrivò al TT dell’Isola di Man. Questa edizione della spettacolare gara britannica non partì con i migliori auspici . Già nel corso delle prove Gary Hocking fu vittima di un incidente ad alta velocità: alle prime ore del mattino, entrò in collisione con il suo connazionale Graham Smith (che conduceva una Norton), vicino al Ballaugh Bridge. Entrambi i piloti finirono in terra ferendosi in maniera non grave. La MV Agusta di Hocking però prese fuoco, andando completamente distrutta. Nonostante le ferite riportate non fossero gravi, i medici sconsigliarono a Gary Hocking di prendere parte alla estenuante competizione. Contrariamente alle istruzioni però il pilota della MV, lasciò l'ospedale, intenzionato a partecipare alle gare. Perdere questa occasione di incamerare punti iridati, avrebbe significato di fatto consegnare i titoli mondiali in mano all’avversario. Hailwood e Hocking offrirono nelle gare junior e senior in un grande spettacolo. Il duello di cui si resero partecipi viene ancora oggi ricordato come uno dei più emozionanti: nella gara junior l’inglese era in testa e il pilota della Rhodesia lo tallonava in seconda posizione, in una gara estremamente tirata. Solo, un problema tecnico impedì a Hocking di tenere testa al rivale sino alla fine. Nonostante questa epica battaglia che si è perpetrata tra i due grandiosi alfieri della MV Agusta e che ha infiammato il pubblico inglese, il TT del 1962 venne offuscato dalla morte di Tom Phillis. Il pilota australiano si schiantò, al Laurel Bank mentre era in sella alla sua Honda. Hocking era estremamente legato a Tom Phillis. La morte dell’amico lasciò delle profonde crepe nel anima del due volte iridato e i dissapori con la sua Scuderia fecero il resto: Hocking annunciò immediatamente il suo ritiro dal mondo del motociclismo. Famose furono le sue parole in merito: "Non riesco più a tollerare la pericolosità della motocicletta e come la gente continui ad uccidersi con le moto". La carriera da pilota di motociclismo di Gary Hocking si concluse con: 41 GP a cui prese parte, 19 vittorie, 33 podi complessivi e 2 titoli iridati (uno nella classe 350cc e uno nella classe 500cc). Ben presto però il richiamo delle competizioni si fece sentire in maniera potente e Hocking decise di intraprendere la carriera di pilota di automobili, imitando in questo John Surtess. A causa della crudele ironia della sorte, Gary Hocking, (allora venticinquenne) invece di trovare nuove sfide nell’automobilismo, finì per perdere la vita. Durante dei test per il GP del Natal (GP del Sud Africa), sul circuito di Westmead ebbe l’incidente nel quale rimase ucciso. Al volante della sua vettura, una Lotus 24 motorizzata Climax, sbagliò una curva veloce finendo per ribaltarsi. La settimana seguente avrebbe dovuto debuttare nel Campionato Mondiale di Formula 1. Il suo funerale si è svolto il 2 gennaio 1963 nella sua nativa Newport (in Galles). Alla cerimonia funebre parteciparono le più alte cariche politiche della sua Nazione. Anche il Primo Ministro della Rhodesia, in una lettera inviata alla famiglia, espresse il suo più profondo cordoglio per la perdita del giovane pilota.

mercoledì 28 gennaio 2009

MOTO GUZZI V11



















Nelle foto, partendo dal basso:
1) La V11 Sport del 1999, nel colore "Verde Legnano", con telaio rosso.
2) La V11 Sport del 1999, in grigio.
3) La V11 "Rosso Mandello".
4) La V11 "Scura".
5-6) Due varianti cromatiche della V11 Sport Naked del 2002 (seconda serie).
7-8) Due varianti cromatiche della V11 Le Mans.
9) La V11 "Coppa Italia"
La tradizione sportiva ha sempre avuto un posto importante nella produzione di Mandello. Molte delle Guzzi di maggior successo sono infatti modelli nati per un utilizzo sportivo e in grado di dare all’appassionato quelle particolari sensazioni che rendono inconfondibile il grosso bicilindrico a V di 90° quando sfruttato al meglio. Ma dopo le eccellenti V7 Sport e Le Mans 850, la Guzzi aveva in parte tradito l’immagine della moto sportiva all’italiana, cioè maneggevole, leggera ed essenziale, sfornando le ormai quasi dimenticate 1100 Sport e V10 Centauro Sport. Queste moto, nate più o meno alla metà degli anni Novanta, certamente in un periodo non esuberante come spirito creativo per la Casa (senza voler suscitare le ire dei guzzisti più fedeli), non si potevano, né si possono oggi, definire delle moto di successo proprio per le loro non eccelse qualità. Con la V11 Sport si cerca perciò di cambiare strada, tornando ad offrire una moto che, per piacere di guida e fascino, possa risvegliare gli appetiti di vecchi e nuovi motociclisti dall’indole sportiva. Presentata ad alcune mostre in anteprima già durante il 1997 ancora col motore della 1100 Sport ad iniezione, la V11 Sport si rende disponibile da concessionari nell’ottobre del 1999. A sottolineare il forte legame che la V11 Sport vuole intrattenere con il passato, nelle foto pubblicitarie viene affiancata alla gloriosa V7 Sport 750cc “telaio rosso”, riproponendone, in uno dei tre allestimenti, l’originale colorazione verde chiaro metallizzata, denominata “verde Legnano”, per la carrozzeria abbinata al rosso per il telaio. Le altre due varianti della moto sono l’argento metallizzato e il nero opaco, entrambi accostati al telaio rosso. Estremamente essenziale (un piccolo capolino fissato al fanale viene fornito come optional), e con caratteri che la collocano sia nella categoria delle naked che in quella delle Cafè racer, la moto ripropone tutta la svelta pulizia di linee tipica delle muscolose sportive all’italiana, ma non manca di elementi moderni come i silenziatori cilindrici montati con inclinazione dal basso all’alto. Abbandonato oramai da anni il solido telaio scomponibile a doppia culla tanto apprezzato sulle Sport e Le Mans, la V11 ripropone lo schema inaugurato con la Daytona (intuizione geniale del Dr. John Wittner di cui ho già parlato in precedenza), proseguito con la 1100 Sport e perfezionato con la Centauro. Si tratta di un monotrave superiore in acciaio con un telaietto anteriore avvitato, mentre posteriormente due piastre sagomate completano gli attacchi. Il motore funge così da collegamento, conferendo alla struttura una rigidità notevole pur senza essere elemento fortemente stressato. Maestra nei telai da sempre realizzati in casa, la Guzzi si rivolge invece ai migliori costruttori esterni per quanto riguarda le sospensioni. La forcella è infatti una Marzocchi a steli rovesciati di 40mm, regolabile nell’idraulica in compressione ed estensione, mentre dietro troviamo un mono a molla bianca della Sachs con le stesse possibilità di regolazione, e che lavora senza interposizione di beveraggi. L’ottima livello ciclistico è sottolineato dai cerchi in lega a 3 razze cave e dal poderoso impianto frenante. Entrambi questi elementi sono della Grembo, con cerchi da 17” e l’impianto frenante che prevede due dischi in acciaio da 320 mm con pinze a 4 pistoncini “Serie Oro” e tubazioni in treccia metallica, mentre dietro il disco è da 282 mm con pinza a 2 pistoncini. Il bicilindrico è, come al solito sulle Guzzi, il protagonista della scena. Nonostante la cilindrata di 1.064cc che prevede una corsa di ben 80 mm, la sporgenza laterale non è esagerata e i cilindri riempiono piacevolmente la vista della moto. Sotto di essi i guzzisti più fedeli riconosceranno il tipico basamento con rinforzi orizzontali e verticali comparso ancora con la V7 Sport del 1971. Non c’è che dire, una bella dimostrazione di fedeltà al progetto originale! Spariti da tempo i carburatori Dell’Orto, l’alimentazione è affidata agli iniettori elettronici, che rendono più fluido il funzionamento del propulsore. La scatola del cambio è invece più corta e compatta rispetto ai precedenti tipi. Primato della V11 consiste nell’avere il camio a 6 marce anziché a 5 come tutti i modelli precedenti. La frizione è a comando idraulico, anch’essa della Brembo. Il cardano ha la scatola della coppia conica di nuovo disegno ed è dotato del nuovo braccio e della relativa asta di reazione più lunghi per ridurre gli effetti negativi di sollevamento del retro negli apri-chiudi in rapida sequenza. Per quanto concerne il design della moto, il primo elemento di cui occorre parlare è il serbatoio, sviluppato in lunghezza e con profonde invasature per le ginocchia, mentre superiormente porta un cuscinetto nero che ricorda quelli montati sulle GP degli anni 60-70, e che consentivano al pilota di appoggiarVi il mento, mentre era alla ricerca della postura più aerodinamica possibile (il cuscino è stato montato solo sulla prima serie). Nella V11 ovviamente la sua funzione è solamente decorativa e sottolinea la presenza arretrata del tappo in stile aeronautico. Il tondo codone posteriore continua indietro le generose dimensioni del serbatoio. La cupoletta posteriore, che porta anteriormente un appoggio per il fondoschiena del pilota è facilmente asportabile, essendo fissata con due viti “a frugola”, dando modo di scoprire la porzione di sella per il passeggero. Le attenzioni riservate a quest’ultimo però non sono molte: le sue pedane sono alte ed ha il peso spostato in avanti così da gravare sulla schiena del pilota. Manca un appiglio, eccezion fatta per una minuscola e praticamente inutile cinghiettina. Peccato inoltre che, come sempre sulle grosse Guzzi, lo spazio per le gambe di chi guida non sia molto, così che facilmente le ginocchia urtano le grosse testate. Impugnando il manubrio si ha la piacevole sorpresa do non trovarlo né troppo basso, né troppo chiuso. E’ anzi regolabile a piacimento sia in senso longitudinale, che in quello radiale, proprio come quello “inventato” da Lino Tonti ai tempi per la V7 Sport. Anche le leve di frizione e freno sono regolabili (4 posizioni), mentre la strumentazione, già vista su altri modelli, è semplice, priva di elementi digitali o di “gadget” come l’orologio o l’indicatore del carburante (ridotto al semplice led che segnala l’entrata in riserva). Nel complesso al V11 dà l’impressione di una moto muscolosa e personale. Naturalmente questo “gran bel pezzo di ferro” non è leggero (circa 250 kg con il pieno di benzina) però, salvo una iniziale sensazione di pesantezza dello sterzo che scompare appena le ruote girano un po’ più che a passo d’uomo, la V11 è leggera da guidare e il suo terreno preferito è il misto veloce. Il motore spinge bene dai 2.000 giri, con bella progressione fino ai 5.500 proseguendo energico fino agli 8.000 indicati dallo strumento. Così “con tanto motore a disposizione” (81,86 CV a 7.750 giri, rilevati alla ruota) e un cambio così a punto, la guida nel misto è decisamente divertente. La frizione, bidisco a secco, è morbidissima, grazie al comando idraulico, mentre il cambio a 6 rapporti non ha nulla a che vedere con quelli del passato: morbido silenzioso e preciso, invita a gustare fino in fondo il generoso bicilindrico a 2 valvole concentrandosi solo sulla guida. In sella alla V11 ci si sente subito a proprio agio: è comoda e la posizione è ideale per una guida sportiva non esasperata. Se un difetto si trova, questo è a livello della stabilità alle alte velocità, e ciò nonostante l’ammortizzatore di sterzo. Sino ai 150-160 Km/h va tutto bene, ma oltre basta un lieve disturbo, come il fondo irregolare o una manovra brusca, che la moto prende ad ondeggiare per un breve tratto fino a ricomporsi da sola. Lo stesso problema compare affrontando anche le curve a largo raggio a velocità elevata. Unitamente a ciò le vibrazioni, che compaiono a pedane e manubrio intorno ai 4.000/4.500 giri, sono fastidiose. Soprattutto nella livrea “verde Legnano”, la V11 Sport, ammalia un discreto numero di appassionati. Le vendite però restano inferiori alle aspettative, anche perché la Casa sta attraversando l’ennesimo periodo travagliato della sua esistenza, e l’instabilità non incoraggia certo gli acquisti. La V11 si vende insomma, ma non abbastanza. Questa la situazione al momento in cui la Guzzi viene acquistata da Ivano Beggio, già patron dell’Aprilia. Il primo frutto della collaborazione Aprilia-Guzzi è la V11 Sport Rosso mandello. Accompagnata da un certificato d’origine firmato da Beggio e costruita in 300 unità, la Rosso Mandello non si discosta nella linea dalla precedente V11, ma ne costituisce il top di gamma. E’ in rosso vivo, colore ripreso anche sui coperchi delle punterie, con diversi particolari in carbonio (parafango anteriore, rivestimento dei silenziatori e l’inedito capolino di serie). Di nuovo c’è anche la frizione che passa dal bidisco al monodico, sempre a secco e con materiale d’attrito sinterizzato. Dal punto di vista funzionale restano immutati i pregi e i difetti della prima serie, tra cui la fastidiosa instabilità dell’avantreno alle alte velocità. Questo problema viene risolto sulla V11 Scura. Grazie all’aumento dell’interasse da 1.471 a 1.490 mm, si è provveduto ad irrigidire il canotto di sterzo mentre al motore è stato introdotto un nuovo supporto che collega la parte posteriore della coppa dell’olio al telaio, rendendolo così più rigido. L’importante modifica viene estesa al resto della gamma, ma la Scura è impreziosita dalle sospensioni Ohlins pluriregolabili (ammortizzatore di sterzo compreso), con la forcella di maggiore diametro: 43mm anziché 40mm. Sono inoltre mantenuti i particolari in carbonio già visti sulla Rosso Mandello, con in più anche la protezione del motorino d’avviamento nello stesso materiale, mentre il motore ha un volano più leggero per ridurre la coppia di rovesciamento e consentire maggiore rapidità nel salire di giri. Le modifiche ciclistiche sono benefiche e la Scura trasmette più sicurezza e più fiducia in curva dove scende in piega più progressivamente di quanto non facessero le versioni precedenti. Nel giugno 2002 arriva la Le Mans (che non godrà di una ottima accoglienza), dotata di una semicarena e di nuovi collettori di scarico con compensatore anteriore. L’aggiunta comporta un miglioramento dell’erogazione ai medi regimi, permettendo a parità di regime di avere qualche Cv in più. Da questa prima Le Mans vengono derivate alcune versioni speciali che differiscono nei colori come la Tenni che si rifà nella livrea alla eccezionale Otto cilindri 500cc da GP. Seguono la Le Mans Rosso Corsa (anno 2003) e la Nero Corsa (anno 2004). La grossa carenatura snatura a detta di alcuni l’essenziale bellezza della V11 Sport che resta sempre preferita al pubblico rispetto alla Le Mans. Ecco allora la presentazione di nuovi modelli con particolari allestimenti. Del 2003 sono la V11 Cafè Sport e la Sport Ballabio. La prima, disponibile da gennaio di quell’anno, è in pratica una riedizione della Scura. La fibra di carbonio è usata a profusione, ma anche la finitura è ricercata. La forcella e il manubrio sono anodizzati in oro, mentre il colore scuro antracite domina la carrozzeria. La novità più di rilievo è comunque il manubrio che non è più il due pezzi regolabile. Il manubrio alto a detta di molti migliora la guidabilità della grossa Guzzi. Questa versione inoltra monta le sospensioni Ohlins pluriregolabili. La moto è inoltre dotata di un capolino che protegge bene il pilota fino ai 130 Km/h. La Ballabio assomiglia alla Cafè Sport: ha lo stesso manubrio, è però colorata in rosso vivo. Nel 2004 chi sceglie una V11 ha a disposizione anche la versione Coppa Italia in grigio-argento e rosso con profili verde, a richiamare l’italico tricolore. L’ultima della serie è la Scura R, tutta in nero brillante a parte il blocco motore (nero raggrinzante), la piastra che sorregge le pedane e la sella (entrambe in rosso) E’ disponibile nel 2005 con il capolino, mntre l’anno dopo viene proposta con la semicarena della Le Mans. Con il 2006 la V11 esce di scena e lascia il testimone alla Griso.
Caratteristiche tecniche (inerenti alla V11 Sport del 1999):
MOTORE:
Tipo: 4 tempi, bicilindrico a V di 90° trasversale
Alesaggio e Corsa: 92x80mm
Cilindrata: 1.064 cc
Compressione: 9,5:1
Distribuzione: Aste e Bilanceri con albero a camme nel basamento; 2 valvole per cilindro
Lubrificazione: A carter umido
Raffreddamento: Ad aria
Alimentazione: Ad iniezione Magneti Marelli con corpi sfarfallati da 45mm
Accensione: Elettronica digitale
Impianto Elettrico: Batteria da 12V/13Ah, alternatore 330W
Frizione: Bidisco a secco con comando idraulico
Cambio: A 6 marce
Trasmissione Primaria: Ad ingranaggi a denti dritti
Trasmissione Finale: Ad albero cardanico con rapporto 32/19
CICLISTICA:
Telaio: Monotrave in acciaio, inclinazione del cannotto di sterzo di 25°, avancorsa 92mm
Sospensioni: Forcella telescopica idraulica Marzocchi con steli rovesciati da 40mm regolabile nell’idraulica in estensione e compressione, escursione 120mm, forcellone oscillante senza beveraggi e monoammortizzatore idraulico regolabile nell’idraulica in estensione e compressione più precarico molla, escursione 128mm.
Ruote: Cerchi Grembo in lega leggera, pneumatico ant. 120/70-17; pneumatico post. 160/60-17
Freni: Ant. A doppio disco flottante in acciaio inox da 320 mm e pinze a 4 pistoncini, post. A disco da 282 mm e pinza a 2 pistoncini
DIMENSIONI E PESO:
Lunghezza: 2.111 mm
Larghezza: 785 mm
Interasse: 1.471 mm
Altezza Sella: 785 mm
Peso a secco: 219 Kg
Capacità Serbatoio: 22 l di cui 4 l di riserva
PRESTAZIONI:
Potenza Max: 91 CV a 7.800 giri
Coppia Max: 9,6 kgm a 6.000 giri
Velocità Max: 220 km/h
VARIAZIONI PER ROSSO MANDELLO:
(da dicembre 2000, serie limitata in 300 esemplari)
Frizione monodico a secco.
VARIAZIONI PER SCURA:
(da febbraio 2002)
Forcella Ohlins rovesciata con steli da 43 mm, ammortizzatore post. Ohlins. Pneumatico post. 180/55-17. Lunghezza 2.150 mm, interasse: 1.490 mm; altezza sella 800 mm, peso a secco 221 Kg.
VARIAZIONI PER LE MANS:
(da giugno 2002)
Avancorsa 103 mm, interasse 1.493 mm, peso a vuoto 226 Kg.
VARIAZIONI PER SECONDA SERIE:
La più grande differenza tra le due serie e' senza dubbio la lunghezza del telaio che nel seconda serie è maggiore, anche se quella che più salta all'occhio alla prima occhiata (oltre naturalmente alle colorazioni) è il motore NON verniciato e la presenza (sulla seconda serie) dei rinforzi che rendono più rigida la struttura motore/telaio. Il prima serie oltretutto monta un cerchio posteriore da 4,5 " anzichè quello da 5,5 del seconda serie e di conseguenza un pneumatico da 160 invece del 180. La seconda serie ha goduto di altri aggiornamenti con l'avvento del modello catalitico: forcelle anteriori da 43mm a differenza delle precedenti da 41 (con differenti regolazioni), perno ruota anteriore maggiorato, incrocio tra i collettori anteriori, sparisce il cuscino posizionato sul serbatoio, la strumentazione ha lo sfondo di colore nero (ITI) anzichè bianco (Veglia), sparisce la spia del generatore che viene sostituita dalla seconda spia per le frecce, sparisce il comando per accendere i fari che rimangono accesi fissi, viene inserita la sonda lamba nell'incrocio dei collettori sotto al motore per far rispettare alla moto le normative euro2, aumenta la compressione che passa da 9,5:1 a 9,8:1.
Info by:
MOTOCICLISMO Gennaio 2009
Per saperne di più:

martedì 27 gennaio 2009

Cook Neilson & DUCATI 750cc SS



































































































































Nelle foto, partendo dal basso:
1) Cook Neilson in sella alla Ducati 750cc SS nel 1975.
2) Il pilota e giornalista americano mentre lavora sulla moto che poi porterà in gara.
3) Cook Neilson insieme a Phil Schilling mentre operano gli ultimi ritocchi alla moto prima delle "fasi calde" della gara di Daytona del 1977.
4-5-6-7-8) Varie fasi della importante competizione statunitense nelle quali vediamo Cook Nielson in sella alla moto di Borgo Panigale, che poi lo porterà alla vittoria dell'edizione del 1977.
Segue breve biografia:
Cook Neilson (nato il 24 agosto 1943) è un ex giornalista ed ex pilota di moto da corsa, americano. E’ entrato nella storia di Ducati per la sua bellissima vittoria sul circuito di Daytona nel 1977, con la California Hot Rod, una 750 SS preparata dal suo amico Phil Schilling. Questa affermazione, rappresenta la prima volta di una moto italiana in una gara per le derivate di serie negli Stati Uniti, tanto che lo si può definire un evento “storico” e sull’onda di tale successo aumentarono le vendite di Ducati negli USA. A metà degli anni Settanta la presenza della Casa di Borgo Panigale negli Stati Uniti era visibile solo attraverso lo Scrambler, un modello off road importato dai fratelli Berliner. Ma nel 1977 le cose cambiarono grazie al memorabile trionfo di Cook Neilson sulla pista ovale di Daytona. Pilota e giornalista, si e’ laureato all’università di Princeton. Con le sue credenziali accademiche, Neilson sembrava destinato a Wall Street, invece la sua carriera si avviò al giornalismo sportivo: scriveva per la famosa rivista Cycle, specializzata in motociclismo. La sua carriera inerente alla carta stampata ebbe inizio nel mese di settembre, 1967 come aiuto editore, venne promosso alla qualifica di Editore nel 1969. Si dimostrò da subito molto brillante e contribuì non poco al successo che la rivisti per la quale lavorava, conobbe negli anni ’70. Proprio per questo Neilson aveva mostrato una buona conoscenza della storia e delle caratteristiche della Ducati, una marca che lo aveva affascinato da tempo. Sulla sua rivista si potevano leggere prove in cui venivano comparate moto italiane e moto giapponesi, sempre realizzate con rigore e imparzialità. Già da quando era molto giovane, Cook era rimasto sedotto dal particolare suono dei propulsori bicilindrici americani delle Harley-Davidson. Tanto che iniziò una carriera sportiva a livello locale nella categoria drag racing con la sua Sportster. Nel 1973 provò una Ducati 750 GT per scrivere un articolo comparativo sulla rivista e subito capì quanto carattere e fascino avesse quella moto. La similitudine tra i motori a distribuzione desmodromica e quelli della Harley-Davidson (che allora era non solo un produttore di moto custom ma anche di moto da corsa su pista) fece sì che il suo stile di guida si adattasse rapidamente alle peculiari doti della Ducati. Egli fu sorpreso soprattutto dal fatto che pur con meno potenza rispetto alle moto concorrenti, la GT si dimostrasse più efficace in circuito. Nel 1975 Cook volle tentare l’impresa di partecipare alla prestigiosa gara riservata alle moto derivate dalla produzione sul circuito di Daytona, un appuntamento molto speciale nel mondo del gare americane, a motivo delle insidiose curve paraboliche, che rendevano le gare che vi si disputavano molto spettacolari. Bastava un errore, e in pochi attimi un pilota, e il pubblico, potevano passare dalla grande euforia al panico. La Ducati con la quale Neilson partecipò era la 750 SS, eletta dai lettori di Cycle la favorita per la vittoria finale. La scommessa era rischiosa, poiché tra il risultare favoriti a livello strettamente teorico e il mantenere le aspettative in pista in una gara di alto livello correva molta differenza. Ma come diceva Neilson “bisogna sperare che il lavoro ben fatto attiri la fortuna”. Per questo motivo Cook affidò la preparazione della moto al suo amico Phil Schilling, un fanatico delle due ruote italiane e giornalista anch’egli. Entrambi avevano il sogno di vincere a Daytona con una Ducati preparata e pilotata da loro stessi. Il nome che scelsero per la moto fu California Hot Rod. Era un’impresa davvero difficile, considerando che in quella gara così famosa si iscrivevano moto giapponesi a 4 cilindri, BMW assistite direttamente dalla fabbrica tedesca e piloti con molta più esperienza del giornalista americano. Quando la moto fu pronta per scendere in pista per le prime prove Cook e l’amico si resero conto che il telaio non reggeva a dovere l’importante aumento di potenza e coppia che la elaborazione aveva reso al bicilindrico italiano. Il telaio infatti rischiava di rompersi durante la gara, sottoposto alle nuove e maggiori sollecitazioni. Quando finalmente il problema fu risolto, irrobustendo a dovere lo chassis, Cook si mostrò ottimista rispetto alla possibilità di ottenere un buon risultato. Durante la gara, la Ducati funzionò alla perfezione; in un eccesso di focosità Cook uscì di pista ma poté rientrare, stando da quel momento molto attento alle zone più insidiose del tracciato. Questa esperienza gli fece capire su quali caratteristiche della sua moto puntare maggiormente: la grande stabilità e l’aerodinamica della carenatura. Queste qualità costituirono un vantaggio nei lunghi rettilinei del circuito di Daytona, come avrebbe poi dimostrato l’anno seguente. Nel 1976 fu inaugurata una nuova categoria, la ‘Produzione’. A essa potevano partecipare moto di serie con poche modifiche autorizzate dal regolamento tecnico. Questo favoriva i Team dai mezzi modesti, come quello di Neilson, che finalmente poteva intravedere la possibilità di realizzare il suo sogno. Se voleva puntare alla vittoria doveva però migliorare le prestazioni della sua Ducati. A parte l’aumento di cilindrata a 883 cc, Schilling si sforzò di migliorare ogni pezzo della moto. La meticolosa preparazione trasformò la sua Ducati in una efficace moto da corsa, e Neilson riuscì a portarla in terza posizione, dietro soltanto alle due BMW ufficiali. Sembrava che il Team avesse trovato una buona linea di lavoro per lo sviluppo tecnico della moto. Schilling si servì anche dell’esperienza del team spagnolo Grau-Canella, vincitore nel 1975 della 24 Ore del Montjuich con una Ducati 860. Finalmente si raggiunsero i 90 CV di potenza, ma soprattutto fu messa a punto una ciclistica molto equilibrata. L’11 marzo del 1977 Neilson prese il via della gara di Daytona. Malgrado le insidie della Kawasaki di Dave Emde e della Kawasaki Yoshimura di Wes Cooley, la Ducati tagliò la linea del traguardo in prima posizione. Con questa vittoria il Team americano realizzò il suo sogno e Fabio Taglioni, il progettista di quella fantastica moto, insieme a tutti i lavoratori della fabbrica bolognese fecero una gran festa per quello splendido trionfo: una Ducati aveva vinto una prestigiosa gara dall’altra parte dell’Atlantico! Anche un’altra 750 SS, pilotata da Kurt Liedman, ottenne un ottimo risultato concludendo la gara in settima posizione. Questa vittoria non fu tanto clamorosa come quella di Paul Smart a Imola nel 1972 e come quella di Mike Hailwood all’Isola di Man, ma contribuì in maniera determinante a far conoscere negli Stati Uniti il nome e la storia di Ducati, suscitando presso gli appassionati d’Oltreoceano grande ammirazione e rispetto. Sempre nel corso del 1977, Neilson ottenne una serie di secondi posti: a Laguna Seca (California), Sears Point, e ad Riverside International Raceway (California). Nel 2006, la Ducati ha annunciato di esser intenzionata a mettere in produzione una replica in edizione limitata (coadiuvata dalla NCR Racing) della 750SS con cui Nielson ottenne la vittoria a Daytona. Sempre nello stesso anno, il bravo pilota statunitense è stato iscritto a pieno diritto nella Ducati North America Hall of Fame e nella AMA Motorcycle Hall of Fame. Il 15 settembre 2008 Cook Nielson, provando una Desmosedici RR, ( replica stradale della Ducati Moto GP, prodotta in 1500 esemplari) ha avuto un incidente. Fortunatamente ne è uscito illeso.

lunedì 26 gennaio 2009

Ducati 750cc SS























La Ducati 750 SS è un modello di motocicletta prodotto dalla Casa di Borgo Panigale dal 1973 al 1977. Della 750 SS si stima che ne siano stati prodotti circa 1.000 esemplari. La storica doppietta di Paul Smart e Bruno Spaggiari in sella a due 750 Sport (Imola) a distribuzione desmodromica nella prima edizione delle 200 miglia di Imola del 1972 contribuì in maniera eccezionale a dare una svolta positiva alla fama e conseguentemente alla storia della gloriosa Casa di Bologna. La gara riservata alle derivate di serie di grossa cilindrata (argomento del quale ho già pubblicato dei post in precedenza) risultò essere infatti una importante “vetrina” per le Case che vi presero parte. Questa storica vittoria diede molto lustro al "marchio bolognese", e gli addetti ai lavori, così come i suoi clienti iniziarono a richiedere in maniera insistente la messa in commercio di una replica stradale delle moto vincitrici (un po’ quello che accade oggi per le moto super-bike replica ad esempio la Ducati 1098R). Ciò nonostante il primo lotto di Ducati SS 750 venne prodotto solo nel 1973, anche se in quell'anno si parlò di numeri piuttosto esigui. Più consistente, da un un punto di vista quantitativo, fu la produzione dell'anno 1974. Al momento della sua uscita l'SS 750 era la moto più rara e ricercata che si trovasse sul mercato, dotata di prestazioni ai vertici, freni, componentistica da corsa e motore elaborato dalla stessa Ducati. Questa moto, al di là delle sue prestazioni spettacolari, offriva anche una serie di caratteristiche viste di rado in una moto sportiva come ad esempio l'imponente impianto frenante, con il doppio disco all'anteriore (visto fino a quel momento quasi esclusivamente sulle moto da gara o su delle costose "special"). Il motore quattro tempi era in grado di soddisfare le esigenze di qualunque centauro, compresi quelli interessati alle corse, senza alcuna speciale modifica. Questo era il risultato di un design senza compromessi e di una cura certosina nella costruzione, che combinava il potenziale del motore bicilindrico con parte delle impareggiabili meccaniche della leggendaria 750 Imola. Il basamento del motore derivava da quello della GT 750 e non dalla 750 Sport (Imola). Si trattava infatti del propulsore a "carter tondi". A questo basamento vennero montare testate desmodromiche viste sulla 750 Sport (Imola). Questa moto fu l’unica Ducati che vide questa accoppiata: motore a “carter tondi” e testate con distribuzione desmodromica. L'albero motore montava bielle lavorate alla macchina utensile con due nervature di rinforzo attorno alla testa. I pistoni erano gli stessi della 750 Sport mentre i carburatori erano Dell'Orto PHM da 40 mm. Le valvole avevano le stesse dimensioni della GT e dei monocilindrici e i bilanceri erano lucidati. Il Telaio derivava dal 750 Sport “telaio stretto” ma con forcella a perno centrale e ruota anteriore da 18". Il serbatoio sagomato da 20 litri rispecchiava, insieme al codone e la semicarena, la linea delle moto vincitrici a Imola, La colorazione era bicolore azzurro/argento.
Caratteristiche tecniche:
MOTORE
Tipo: 4 tempi, bicilindrico a V di 90°
Alesaggio e Corsa: 80 x 74,4 mm
Cilindrata: 748 cc
Rapporto di compressione: 9,6:1
Distribuzione: Desmodromica a valvole in testa
Lubrificazione: Ad alta pressione con pompa ad ingranaggi
Raffreddamento: Ad aria
Carburatore: Due carburatori Dellorto PHM con diffusore da 40 mm
Cambio: Cinque marce
Trasmissine primaria: A ingranaggi
Trasmissione secondaria: A catena
Frizione: A dischi multipli in bagno d'olio
CICLISTICA
Telaio: A culla aperta
Sospensione anteriore: Forcella telescopica a doppio effetto
Sospensione posteriore: A forcellone oscillante con ammortizzatori idraulici a doppio effetto e molle concentriche regolabili
Freno anteriore: A doppio disco Ø 280 mm
Freno posteriore: A tamburo da Ø 229 mm
Pneumatico anteriore: 3.50 V-18
Pneumatico posteriore: 120/90 V-18
DIMENSIONI
Lunghezza: 2220 mm
Larghezza: 675 mm
Altezza: 1230 mm
Altezza sella: 800 mm
Interasse: 1500 mm
Peso a secco: 187 chili
PRESTAZIONI
Potenza massima: 72 CV a 9500 giri/min
Velocità massima: 220 km/h

venerdì 23 gennaio 2009

Ing. Umberto Todero: la mia vita in Guzzi














Nelle foto, partendo dal basso:
1-2) Un anziano Umberto Todero passeggia per il museo della Moto Guzzi. In particolare qui lo vediamo accanto alla 500 V8 da GP.
3) Umberto Todero intento a cronometrare le moto di Mandello del Lario durante le prove di una competizione.
Chiudo con questo post il lungo “filone” di articoli che ho pubblicato in questi giorni, inerente alla Moto Guzzi. Fino a questo momento su Cesena Bikers per quanto riguarda il marchio di Mandello del Lario avevo parlato “solamente” della V8 500cc da GP e di Omobono Tenni. A partire dal 19 gennaio invece ho aperto una lunga parentesi dedicata alla Moto Guzzi. Di solito questo non è nello stile che ho scelto per Cesena Bikers: di solito cerco di non dilungarmi troppo su di un argomento (infatti al massimo pubblico due articoli di seguito inerenti lo stesso marchio o pilota e poi volutamente passo ad altro). In questo caso ho deciso cambiare approccio in quanto reputo molto interessante e da considerarsi nell'insieme, la "storia fino a qui narrata" (ovviamente non voglio togliere nulla a nessuno degli argomenti trattati in precedenza..). Essendo io un motociclista “innamorato della Guzzi”, non posso che “masticare amaro” quando si parla di storia sportiva recente con i miei compagni di scorribande: Ducati, Honda, Suzuki hanno dominato il motociclismo “moderno” in ogni tipo di categoria, la MV Agusta ha vinto quanto nessun altro in passato ed ora sta tornando alla ribalta, avendo conquistato il campionato italiano Superbike nel 2008 (con in sella l'aretino Scassa) ed essendo oramai pronta ad affacciarsi al mondiale (voci insistenti parlano del 2010). La Guzzi? La Guzzi vive (o meglio sopravvive) dei fasti di un passato agonistico oramai troppo remoto. La sua storia recente in ambito sportivo si basa sulle incredibili prestazioni di Guareschi al BOTT, ma non parla di alcuna competizione di caratura mondiale. La domanda che spesso mi sento rivolgere è: ma perché la Guzzi?.. Non c’è un perchè, o meglio non ce n’è solo uno, la Guzzi è così, o la si ama o la si odia; la Guzzi è fatta di tante minuscole sfaccettature che la rendono unica, anacronistica, ma agli occhi di chi la possiede, impossibile da tradire. E’ per questo che mi sono dilungato tanto a parlare degli uomini che con la loro passione hanno reso grande la Casa di Mandello del Lario: per cercare di raccontare a chi non la conosce, un po’ di storia di un glorioso marchio italiano. Per cercare di fare comprendere un po’ di più il perché di alcune scelte tecniche come il motore a V di 90° frontemarcia raffreddato ad aria ad aste e bilanceri o la trasmissione cardanica, che agli occhi dei più risultano assurde ma che indubbiamente la rendono unica. Per cercare di fare capire achi me lo ha chiesto perché un ragazzo di trentadue anni, può scegliere una “moto da nonno”, pagandola anche di più di quello che avrebbe pagato una “moto da ragazzo”. Dopo Wittner e Carcano, per ultimo (ma non meno importante) voglio postare un articolo su Umberto Todero, in quanto egli è uno degli uomini che più incarna il marchio e lo spirito della Guzzi. Per raccontare i suoi 66 anni legati a Moto Guzzi occorrerebbero fiumi di parole. Chi ha avuto la fortuna e l’onore di conoscerlo, racconta di un uomo, l’ “Umberto” che incantava il “suo pubblico” con racconti e aneddoti di vita legati alla sua storia in Moto Guzzi e alla guerra, racconti ricchi di amore, di passione e anche di sofferenza, che hanno insegnato tanto, soprattutto ai più giovani che attraverso le sue parole hanno scoperto un mondo unico, insuperabile, ineguagliabile. Per rendere omaggio a uno degli uomini che hanno maggiormente contribuito a scrivere le più belle pagine della storia del marchio dell’Aquila Lariana, pubblico un suo scritto nel quale è lui stesso a raccontare i momenti più emozionanti della sua storia, della sua vita, vissuta con tanta intensità nella Casa di Mandello del Lario . In Moto Guzzi non verranno mai dimenticate la tenacia e la caparbietà che hanno contraddistinto Umberto Todero, sia nella sua vita professionale che in quella privata. Il suo ricordo è presente in tutti, e resterà sempre vivo attraverso la sua capacità e al suo ingegno progettuale, riferito tanto alla storia passata quanto a quella più recente del marchio, storia che lo ha visto attivo protagonista fino all’ultimo istante.

Umberto Todero: la mia vita in Guzzi

Ricordo ancora oggi con una certa emozione, il mio primo giorno di lavoro in Moto Guzzi, con la mia mano tremante nel porre la firma sul documento di conferma dell’assunzione. Era il 6 marzo 1939. Da allora sono passati molti anni, 65 per l’esattezza, e io mi trovo ancora presente tra le mura della Moto Guzzi a Mandello del Lario, orgoglioso di avere legato il mio nome ad un Marchio, che ha saputo sostenere il nome dell’Italia, nel corso di oltre ottant’anni di storia, sia nel campo del lavoro che in quello dello sport. Finite le scuole, e dopo essermi diplomato presso la Scuola d’Arte ad indirizzo industriale in Friuli, dove risiedevo con la mia famiglia, mi fu offerto un posto di lavoro a Lecco, presso la Filiale Fiat. Accettai quell’offerta, e quindi fui costretto a trasferirmi a Lecco, dove abitavano i miei zii. Accettai quel posto di lavoro, poiché non mi precludeva la possibilità di continuare, seppur in privato, i miei studi. Fu così che, dovendo sottostare ad un periodo di residenza di tre mesi, obbligatorio per quei tempi, prima di ottenere il nulla osta all’assunzione, ebbi la possibilità di un colloquio alla Moto Guzzi, presentandomi con una domanda di lavoro. La sorte mi favorì, e dopo pochi giorni ebbe inizio la mia lunga storia legata alla Moto Guzzi. Nel corso di tanti anni, operando sempre in attività tecniche, passai a mansioni e posizioni sempre di maggiore responsabilità. Iniziai nel 1939 con semplici lavori di disegno di particolari, attinenti la costruzione del motociclo “Alce”, allora in fase di studio e di realizzazione; continuai poi con lo sviluppo del “Trialce” e per finire, sempre con prodotti militari, venni impiegato a realizzare un motore “fisso industriale” da utilizzare per formare gruppi elettrogeni o motocompressori in uso alla Marina Militare. Quanto detto, fece parte essenziale dell’attività da me svolta in Moto Guzzi, prima della guerra. Al termine della guerra, fui impiegato nell’aggiornamento e nel rinnovo di motocicli già in produzione nell’anteguerra, partecipai con studi riguardanti principalmente sistemi di sospensione, impianti frenanti, cambi di velocità ed altro ancora, dovendo nel contempo suddividere lavoro d’ufficio con lavoro d’officina, rivolto alla sperimentazione di quanto in precedenza veniva studiato. Fu proprio questo, il periodo in cui mi affermai nei lavori di progettazione e di aiuto al Comm. Carlo Guzzi. Nel 1948 la mia carriera subì una svolta importante. Venni, infatti, affidato alle dipendenze dell’Ing. Giulio Cesare Carcano, geniale progettista della Otto Cilindri e del motore bicilindrico a V di 90°, che rappresenta ancora oggi il simbolo della Moto Guzzi. L’Ing. Carcano, allora Direttore dell’Ufficio Esperimenti e Studi, era incaricato di gestire anche la progettazione e le prove delle moto da corsa. Incominciai così, sotto la guida di colui che fu il mio vero e grande maestro, il lavoro di progettazione di nuovi motocicli da corsa, che portarono ai primi veri confronti delle Moto Guzzi con la concorrenza, in gare nazionali ed internazionali. Nel 1951 venni nominato Vice Capo Reparto Corse, e gli anni che seguirono furono quelli della mia maggiore responsabilità nell’ambito del Reparto Corse. Oltre al lavoro di progettazione, dovetti assecondare al lavoro di diretto gestore del reparto corse, e quindi ancora di più, adoperarmi in nuove mansioni legate al mondo delle competizioni. Le fatiche, le preoccupazioni e le emozioni vissute nell’arco di quegli anni, sono per me indimenticabili. Finita l’esperienza al Reparto Corse, nel 1957, continuai la mia attività sempre sotto la direzione dell’Ing. Carcano, con il quale contribuii a realizzare nuovi prodotti, tra i quali vorrei ricordare lo Stornello, nelle versioni Turismo e Sport, ai quali seguirono la V7 e il motore bicilindrico a V. Dopo la scomparsa dei Soci Fondatori, Giorgio Parodi nel 1955 e Carlo Guzzi nel 1964, la Moto Guzzi passò di proprietà in proprietà, con tanti problemi da risolvere e conseguentemente con diversi sistemi organizzativi. Con tutti i cambiamenti vissuti, la mia posizione rimase inalterata e anche i miei compiti come Capo Servizio Progetti rimasero gli stessi. Continuai, in particolare, a mantenere collegamenti con gli uffici del Ministero dei Trasporti e con l’Associazione dei Costruttori. Con questi “gruppi di lavoro” collaborai negli anni settanta all’estensione di norme riguardanti l’inquinamento atmosferico su temi proposti dal Ministero dei Trasporti italiano, della CEE e dell’ONU tramite l’ISO. Fu questo un lavoro molto importante e impegnativo per la ricerca e la sperimentazione.Proprio negli anni settanta, ed esattamente nel 1975, devo ricordare un grande e inaspettato riconoscimento che mi giunse dal Ministero del Lavoro, un telegramma, poi seguito dal Decreto del Presidente della Repubblica, mi annunciava l’assegnazione della Stella al Merito del Lavoro, con il titolo di Maestro del Lavoro. Attraverso il mio lavoro, svolto in tutti questi anni con una passione e una dedizione infinite, ho sempre ottenuto soddisfazioni e riconoscimenti, motivo per cui mi sento davvero orgoglioso d’aver contribuito unitamente a tanti colleghi alle migliori fortune della Moto Guzzi, e alla quale auguro un futuro in continuo crescendo e ricco di nuovi successi.

giovedì 22 gennaio 2009

Moto Guzzi V7 Sport 750cc










































Nelle foto, partendo dal basso:
1) La Moto Guzzi V7 Sport nella sua versione più famosa: quella di colore "verde legnano" con telaio rosso. Di questa particolare versione ne vennero prodotti 150 esemplari che furono assemblati direttamente dal reparto corse della Guzzi.
2) La moto di Mandello del Lario, viene osservata niente poco di meno che da sua maestà Mike "the bike" Hailwood, nove volte iridato del Montomondiale.
3) Il due volte iridato di F1 (anno 1972 con la Lotus e anno 1974 con la Mclaren), il brasiliano Emerson Fittipaldi detto "O Rato", in sella alla V7 Sport.
3) Il prototipo della V7, con carenatura integrale, che nel 1969 sul circuito di Monza, nel giorno del suo debutto, battè ben 19 records di velocità.
La Moto Guzzi V7 Sport è stata negli anni '70 il modello di motocicletta turistico sportiva di punta della casa di Mandello del Lario, ed è popolarmente nota con l'appellativo di "Bassotto". Nel 1967, dopo un periodo di incertezza dovuto alla morte del fondatore Carlo Guzzi (avvenuta nel 1964), la gestione della Moto Guzzi fu assunta dalla SEIMM (Società Esercizio Industrie Moto Meccaniche), una società costituita dalle banche creditrici, che cercò di indirizzare la produzione verso il mercato dei ciclomotori e verso le forniture istituzionali. Nel 1968, mentre il mercato delle "maxi-moto" cominciava a subire la crescente affermazione delle case giapponesi, la SEIMM affidò a Lino Tonti lo sviluppo del motore a V, realizzato nel 1965 da Giulio Cesare Carcano, licenziato all'insediamento della SEIMM. L'intento della nuova dirigenza (gli "ingegneri", come venivano chiamati in Guzzi) sarebbe stato quello di riconquistare una immagine sportiva. Tonti, aiutato da Umberto Todero (storico "braccio destro" di Carcano), si mise al lavoro per potenziare il motore e costruire un telaio all'altezza della situazione. Il "reparto corse" della casa di Mandello preparò per il 1969 la nuova "V7", dotata di carenatura integrale ed accreditata di 65 Cv e 185 Kg di peso, presentata alla stampa sul circuito di Monza. In sole due sessioni di prove la nuova motocicletta batté 19 record mondiali di velocità. Visti i risultati la Moto Guzzi mise in produzione una "750" per il turismo sportivo a largo raggio, affidandone la realizzazione agli stessi tecnici. Doveva essere un lavoro di limatura, ma Tonti e Todero modificarono completamente il telaio, ridisegnarono il carter e cambiarono sospensioni e freni. Ne discese la "V7 Sport", una moto molto bassa, con 70 Cv, cambio a 5 rapporti e trasmissione finale a cardano. Dotata di una buona tenuta di strada, era in grado di raggiungere una velocità ben superiore ai 200 km/h e di coprire i 400 metri con partenza da fermo in 13 secondi. Fu presentata al Salone del Ciclo e Motociclo di Milano del novembre 1971, divenendo immediatamente il modello di riferimento della produzione mondiale, nel settore delle moto per turismo sportivo, per stabilità, velocità e robustezza. Nel 1972 una nota rivista del settore organizzò un test comparativo per i sei modelli di maxi-moto ritenuti i più rappresentativi del momento, in configurazione strettamente di serie, (Ducati 750 GT, Honda CB 750 Four, Kawasaki Mach IV 750, Laverda SF 750, Suzuki GT 750). Durante le prove, svoltesi a Monza sotto il controllo di Franco Marchesani, il più esperto commissario sportivo FMI, la Moto Guzzi V 7 Sport effettuò la percorrenza completa del circuito, fermando i cronometri sul tempo di 2'02"47 ed infliggendo un abissale distacco di quasi 12 secondi alla concorrente Kawasaki 750 Mach IV, al tempo considerata il non plus ultra delle prestazioni. Sempre a Monza, nel 1974, Abbondio Sciaresa portò la "V7" alla vittoria, dopo aver conquistato alcune gare importanti, tra cui quella di Misano, nello stesso anno, dove si aggiudicò anche il giro più veloce, gareggiando contro le agguerrite Laverda 750 SFC, Kawasaki 750 H2R e Norton 750 Commando PR. Lo stesso schema di telaio e motore della "V7 Sport" fu utilizzato fino al termine degli anni ottanta per una serie di evoluzioni sportive ("750 S", "750 S3", "850 Le Mans") e turistiche ("V1000 I-Convert", "V1000 G5", "850 T3", "V1000 SP"), mentre rimane a tutt'oggi in produzione praticamente immutato rispetto all'origine per la celeberrima cruiser di Mandello, la Moto Guzzi California. Se la parte tecnica della due ruote era di primordine, pesanti critiche vennero mosse alle scelte di risparmio che contraddistinsero le finiture della "V7 Sport". La moto venne infatti palesemente accusata di non essere all'altezza della concorrenza nipponica. Le pecche si concentravano nell'aspetto esteriore, ovvero nelle verniciature, nella scarsa qualità della componentistica di finitura e dei comandi, oltre che nella mancata ricerca di un design degno della tradizione italiana (la cosa appare oltretutto sorprendente essendo l'Italia, da sempre famosa come patria del design e dell'eleganza e considerata la come scuola da imitare per questi aspetti). L’invasione delle nipponiche nel nostro mercato della motocicletta era infatti iniziata: nei primi anni settanta infatti le case giapponesi avevano cominciato ad ampliare la loro sfera d'influenza anche al mercato europeo presentando delle motociclette innovative, le prime delle quali dotate di motore a due tempi (sulla scia di quanto stava accadendo nei GP), al contrario della Moto Guzzi, che le rendevano diverse sia per quanto riguarda l'erogazione della potenza che, unita ad una diversa distribuzione dei pesi, consentiva l'effettuazione di spettacolari quanto pericolose impennate. Nello stesso tempo anche la differenza nel tipo di emissioni sonore dello scarico, molto grave per la Guzzi e molto acuto per le giapponesi, contribuiva ad un'impressione di maggior sportività Tutto ciò contribuì a limitare, soprattutto sul mercato nazionale, il comunque discreto successo commerciale del modello, circoscrivendolo ad una clientela "esperta" che badava più alla sostanza che all'apparenza. Sul mercato collezionistico la "V7 Sport" ha raggiunto valutazioni piuttosto elevate. I primi 150 esemplari della serie, addirittura, spuntano quotazioni quasi doppie, rispetto ai successivi. Una buona occasione per i falsari, aiutati dal fatto che il telaio ed il motore della "V7 Sport" sono stati utilizzati come base per buona parte della produzione Moto Guzzi degli anni '70 e '80. Ne discende una relativa semplicità estetica di falsificazione che include questo modello tra quelli più "taroccati" al mondo, anche per la grande richiesta da parte di collezionisti italiani ed esteri, non sempre preparati ed accorti. Per onor di cronaca, è necessario ricordare che il modello "V7 Sport" venne prodotto dal 1972 al 1974 in 2.731 esemplari (nn. di serie da VK-11111 a VK-13842); compresi i famosi "telaio rosso", ovvero i primi 150 esemplari (nn. di serie da VK-11111 a VK-11261), assemblati direttamente dal reparto corse Moto Guzzi e che si distinguevano per avere il telaio tubolare dipinto di rosso anziché di nero.
Caratteristiche tecniche:
MOTORE
Tipo: Bicilindrico a V trasversale di 90° ciclo Otto (4T)
Cilindrata: 748 cc
Alesaggio: 74,0 mm
Corsa: 57,0 mm
Raffreddamento: ad aria
Distribuzione: 2 valvole in testa con aste e bilanceri
Alimentazione: carburatori
Frizione: disco singolo a secco
Cambio: sequenziale a 5 marce (sempre in presa)
Trasmissione: Cardanica
CICLSTICA
Telaio: Tubolare a doppia culla chiusa
Sospensioni anteriori: Forcella teleidraulica
Sospensioni posteriori: Forcellone oscillante con ammortizzatori regolabili
Freno anteriore: tamburo da 220 mm a 4 gan.
Freno posteriore: a tamburo centrale
Pneumatici: ant. 3.25 x 18; post. 3.50 x 18
DIMENSIONI
Lunghezza: 2.090 mm
Larghezza: 700 mm
Altezza: 1.150 mm
Altezza della sella: 770 mm
Interasse: 1.420 mm
Peso a vuoto: 206 kg
Capacità serbatoio: 19 l
PRESTAZIONI
Potenza: 70 CV a 8000 giri
Velocità massima: 206 Km/h

Info by Wikipedia:

mercoledì 21 gennaio 2009

Ing. Giulio Cesare Carcano




Nelle foto partendo dal basso:
1) L'ing. Carcano insieme a Cantoni e a Todero, attorno ad un tavolo da disegno in Guzzi
2) L'ing. Carcano in una delle sue conferenze.
Proseguo in questo "filone" di post inerenti alla Moto Guzzi, scrivendo della "mente" che ha ideato il propulsore che ha reso celebri le moto prodotte a Mandello del Lario dalla fine degli anni sessanta in poi. Carcano rappresenta per la Guzzi quello che Taglioni fu per la Ducati: uomini che con il loro estro e le loro intuizioni vincenti hanno dato una impronta talmente profonda alle Case per le quali hanno lavorato, che ancora oggi, a distanza di decenni, quest'ultime, sono legate in maniera assolutamente indissolubile ai loro progetti. Parlando di Moto Guzzi é infatti impossibile oggi non pensare ai suoi generosi propulsori bicilindrici a V raffreddati ad aria che la hanno resa celebre e che ancora oggi (seppur con le dovute e necessarie modifiche), caratterizzano queste moto italiane, rendendole uniche al mondo.
Segue breve biografia:
Giulio Cesare Carcano (Milano, 20 novembre 1910 – 14 novembre 2005) è stato un ingegnere italiano specializzato nel settore motociclistico. Entrato in Moto Guzzi nel 1936, avrebbe dovuto interessarsi esclusivamente di mezzi militari. La passione per le competizioni era però enorme e ben presto fece il suo ingresso nel reparto corse, all'interno del quale, a capo di un piccolo, entusiasta ed abilissimo gruppo di tecnici, progettò e sviluppò alcune moto destinate a spopolare su tutti i circuiti dei mondo, conquistando Titoli iridati a ripetizione, e ad entrare con pieno diritto nella leggenda dei motociclismo. Si tratta delle monocilindriche di 350cc in versione dapprima monoalbero e quindi bialbero. L'ultima versione di queste formidabili moto a cilindro orizzontale, con lubrificazione a carter secco e volano esterno alla camera di manovella, aveva un alesaggio di 75 mm e una corsa di 79 mm. La potenza era di circa 42 CV a 8000 giri/'. La fama di Carcano è però fondamentalmente legata ad un’altra moto da corsa (sebbene questa non abbia mai vinto il Mondiale) che ha lasciato una traccia incancellabile nella storia della tecnica: la 500 a otto cilindri (sulla quale ho pubblicato un post in precedenza). Questa moto risultò estremamente sofisticata per l’epoca e solo la bassa qualità dei materiali e la allora difficile lavorazione degli stessi, ne resero difficoltosa la messa a punto. Al termine del 1957 la Casa si ritirò dalle competizioni mettendo quindi fine al suo sviluppo. All'inizio degli Anni '60 la Casa di Mandello Lario stava attraversando un periodo di forte crisi: le automobili utilitarie, che in quegli anni cominciavano ad essere alla portata di tutte le famiglie, erano ormai l'oggetto del desiderio e lo scooter, che nel dopoguerra aveva vissuto un periodo di grande splendore, stava per essere sostituito dalla Fiat 500. La prima realizzazione di Carcano fu la Stornello 125, concepita all'insegna della massima economia di costruzione ed esercizio. Questi progetti però non soddisfacevano una persona della levatura di Giulio Cesare Carcano. Un pò per sfuggire alla noia, un pò per esercizio personale, Carcano cominciò la progettazione di un motore che avrebbe dovuto equipaggiare la sua Fiat 500, auto che gli piaceva molto ma che non aveva un motore molto vivace. Era un bicilindrico a V di 90 gradi per limitare le vibrazioni, con distribuzione ad aste e bilancieri e con albero motore e bielle montati su cuscinetti a strusciamento (quindi bronzine) per un discorso di semplicità ed economicità di costruzione. Il progetto iniziò senza una precisa direttiva, ma destò grande interesse dopo i collaudi dei primi prototipi, che si rivelarono molto robusti ed affidabili, con poche vibrazioni ed una coppia eccezionale. In quegli anni di crisi del mercato sembrava azzardato pensare ad una motocicletta e il motore venne quindi proposto alla Fiat in alternativa al bicilindrico parallelo della 500. Nato con cilindrata di 500 cm3, il bicilindrico Guzzi venne portato a 650 cm3 e, perfettamente inserito nella scocca della piccola vettura, riuscì ad incrementarne molto le prestazioni visto che riusciva a sviluppare una potenza di ben 32 CV. In una intervista concessa alla rivista Motociclismo, Carcano dichiarò che la Fiat 500 equipaggiata con il suo motore poteva viaggiare tranquillamente a 140 km/h. Queste dichiarazioni, unite alla fama di talento e serietà del tecnico, suscitarono l'interesse della Fiat. Si arrivò molto vicino alla definizione dell'accordo per la fornitura dei motori alla Fiat ma alla fine la casa automobilistica fece marcia indietro per motivi rimasti misteriosi al grande pubblico. Grazie alla gara indetta dal Ministero Della Difesa, che intendeva dotare le truppe di montagna di un veicolo da carico adatto ai più difficili percorsi, il bicilindrico si trovò ad equipaggiare un mezzo a tre ruote capace di arrampicarsi sulle mulattiere con pendenze al limite del ribaltamento. Su questo veicolo, denominato 3X3 o Mulo Meccanico, il motore venne depotenziato fino al limite di 20 CV, che raggiungeva però a soli 4000 giri. L'occasione giusta per sfoderare il suo progetto, Carcano l'ebbe con un concorso ministeriale della Polizia di Stato, a quel tempo equipaggiata con il Falcone, moto che era prestazionalmente limitata rispetto allo sviluppo subito dai veicoli in circolazione in quel periodo. Il bando parlava di una moto capace di arrivare a 100.000 km senza necessità di grandi interventi e facilmente riparabile per non avere lunghi tempi di fermo macchina in caso di guasti. Il lavoro per la moto da presentare alla Polizia cominciò nel 1964. Prese quindi vita il progetto più famoso di Carcano, progetto al quale la Guzzi è ancora legata in maniera indissolubile. Carcano stesso disse che il motore che progettò per partecipare al concorso non aveva più nulla in comune con il motore montato sulla sua 500 tranne l'architetture dei cilindri a 90 gradi frontemarcia. Infatti la lubrificazione passò da carter secco (quindi con olio separato) a carter umido (con olio nella coppia). Le pompe dell'olio di mandata e recupero vennero sostituite da un'unica pompa di mandata. I due alberi a camme vennero sostituiti da un unico albero al centro della V. Vennero adottati cilindri cromati che per la prima volta in assoluto venivano usati su una tale cilindrata. Il carburatore doppio corpo venne sostituito da due Dell'Orto da 29 mm. L'accensione era a spinterogeno con spazzola rotante. La trasmissione era con frizione sul volano bidisco a secco di tipo automobilistico. Il cambio separato era in alluminio con quattro rapporti sempre in presa. La trasmissione finale era ad albero con un giunto omocinetico all'uscita del cambio e coppia conica sulla ruota. L'energia elettrica veniva fornita da una dinamo di 300 W a 12 V che era la più grande mai montata su una moto. La batteria da 32 Ah permetteva di adottare un motorino d'avviamento di tipo automobilistico oltre a tutti i servizi necessari ad una moto della Polizia (sirena, radio ecc.). Il telaio era a doppia culla continua in tubi con il forcellone oscillante e la trasmissione racchiusa nel braccio destro del forcellone stesso. Posteriormente le sospensioni erano costituite da due ammortizzatori idraulici regolabili su tre posizioni. Anteriormente invece venne adottata una forcella teleidraulica. La prima versione di questa nuova moto, aveva una cilindrata di 703,3 cc, una potenza di circa 35 CV, un peso di 250 Kg. e raggiungeva la ragguardevole velocità di 150 km/h. Nel 1965 cominciarono i collaudi sia da parte della Guzzi che da parte della Polizia. A novembre dello stesso anno la moto viene anche presentata al Motosalone di Milano in versione civile, con motore potenziato a 40 CV a 5800 giri che permetteva una velocità massima di 164 km/h con un peso al netto delle attrezzature militari di 230 Kg. Contemporaneamente si dimostra interessata al progetto anche la polizia californiana, nota per la sua severità in fatto di collaudi per la scelta dei mezzi d'ordinanza. Nel 1966 inizia la produzione della V7 per la Polizia ed i mercati esteri. Nel 1967 inizia la vendita al pubblico italiano con un prezzo di 725.000 lire. La moto civile era rossa e argento con i pannelli cromati al serbatoio ed il telaio nero. Rimase in produzione fino al 1969 quando venne rivista da Lino Tonti nella meccanica e nel nome. Nacque così la V7 Special. L'ingegner Carcano rimase sempre legato all'azienda di Mandello del Lario sino al 1965, proseguendo poi la sua attività nel campo delle imbarcazioni, applicando la modifica usata oggi in tutto il mondo sul 4 pesi leggeri: prima i remi erano uno destro uno sinistro, uno destro uno sinistro; la sua innovazione consisteva nell'avere il primo e il quarto da un lato e i due centrali dall'altro; questa innovazione fece vincere alla Canottieri Moto Guzzi numerosi titoli e successivamente a tanti equipaggi di varie nazioni. Questa fu un'idea di successo, dimostrata dal fatto che oggi tutte le imbarcazioni del 4 pesi leggeri utilizzano questa innovazione. Pochi mesi prima della sua scomparsa, avvenuta all'età di 94 anni, la Moto Guzzi ha inteso omaggiare l'opera di Carcano, denominando CA.R.C. (CArdano Reattivo Compatto) il nuovo e rivoluzionario sistema di trasmissione cardanica, ideato dai tecnici della casa di Mandello.

martedì 20 gennaio 2009

Moto Guzzi Daytona















Nelle foto partendo dal basso:
1) Uno schizzo dello schema tecnico del bicilindrico made in Mandello del Lario.
2) La moto del Dr. John "svestita" di tutta la carrozzeria. Si nota benissimo la ciclistica rifatta, rispetto alla Le Mans (dalla quale i primi esemplari derivavano).
3 e 4) La moto del Dr. John ai box dopo il BOTT di Monza del 1989.

La storia della Moto Guzzi parla di successi sportivi, di mezzi altamente competitivi e di motociclette dal fascino intramontabile. Il problema della Casa di Mandello del Lario é stato che dopo il suo ritiro ufficiale dalle corse, avvenuto a metà degli anni cinquanta, non ha più creduto con convinzione al lustro che le avrebbero reso le competizioni. In Guzzi evidentemente non si è ragionato neppure sul fatto che il know-how derivante dalle gare, avrebbe poi portato dei benefici direttamente alle moto di produzione. Ancora nel corso dei primi anni ’80, le Guzzi erano moto ammirate e sognate nelle vetrine dei concessionari, mentre l’invasione nipponica si faceva sempre più prepotente nel nostro Paese. La Le Mans era una sportiva blasonata che occupava un posto di rilievo nel cuore degli appassionati. La sua ciclistica era però migliorabile ed il motore garantiva prestazioni che ormai non erano più così esaltanti come al momento del suo lancio. L’immagine sportiva della Moto Guzzi stava quindi sbiadendo velocemente, incalzata da una concorrenza agguerrita e pronta ad investire denaro nelle competizioni, pur di garantirsi visibilità da parte del grande pubblico. Il fascino dei grossi propulsori a quattro tempi applicati alle moto era infatti molto sentito dagli appassionati di motociclismo. Sebbene i GP fossero dominati da moto a due tempi, la F1 e le altre categorie come l’endurance e la BOTT stavano prendendo sempre più campo, con seguiti di pubblico fino ad allora inimmaginabili. Le Case inoltre avevano nei loro listini sempre meno modelli spinti dai propulsori a due tempi. Fu proprio in questo clima di “ritorno” all’amore per i propulsori a quattro tempi che vennero gettate le basi per il campionato Superbike, che nacque nel 1988. Mentre in Italia non si faceva nulla di concreto per correre ai ripari cercando in qualche maniera di fare tornare la Guzzi agli antichi fasti, dall’altra parte dell’oceano un dentista con le mani ormai irrimediabilmente sporche di grasso riusciva a mietere allori nei vari campionati AMA/CCS. John Wittner, “Dr John” per gli amici, faceva tutto in casa, con solo una piccola spinta da parte della Moto Guzzi americana (evidentemente più lungimirante della “nostra”) e fu lui grazie al suo estro a dare il via all’ultimo progetto vincente del secolo, per la Casa di Mandello del Lario. La base di partenza, gettata dal dentista americano, si rilevò talmente valida, da essere utilizzata negli anni a venire come oltre che nelle competizioni, anche per i modelli di produzione. Ciò di cui le sportive italiane della vecchia guardia difettavano erano anzitutto le prestazioni. Così come quelli marcati Ducati, i bicilindrici Guzzi iniziavano a sentire il peso del tempo (incalzati come erano dai potenti e affidabili quattro cilindri nipponici). I propulsori lariani, rispetto ai concorrenti bolognesi, avevano l’aggravante di un peso maggiore e di un'architettura che non lasciava molto spazio all’aggiornamento (il buon Taglioni quando realizzò il motore Ducati Pantah guardò talmente avanti che i moderni Testastretta da oltre 150 Cv/litro ne condividono ancora la struttura). In ogni caso, sul piano prestazionale il bicilindrico raffreddato ad aria e due valvole non offriva grosse prospettive di sviluppo e questo probabilmente era uno dei problemi del team Wittner. Il medico statunitense però si adoperò da subito per apportare una grossa variazione alle motociclette realizzate su base Le Mans. Partì dalla ciclistica: accantonata la classica e obsoleta doppia culla che avvolgeva il motore, il geniale ex-dentista affidò il grosso del lavoro a una singola trave a sezione rettangolare disposta obliquamente dentro alla V dei cilindri, collegata ai bracci posteriori tramite due piastre in lega leggera imbullonate a un corto tubo circolare trasversale. Il forcellone era a doppio braccio di tipo Cantilever con un singolo ammortizzatore, mentre la trasmissione era lasciata indipendente in modo da eliminare gli effetti della coppia di reazione grazie a un albero che correva parallelo al forcellone (nulla di nuovo oggi, viste le moderne evoluzioni dei bicilindrici a cardano). Il telaio, così strutturato, permetteva la centralizzazione delle masse, oltre ad irrigidire l’intera struttura. Il robusto propulsore completava l’opera, fungendo da elemento stressato. In questa maniera vennero risolti i grossi limiti dei telai tradizionali, conferendo alla moto maggiore rigidezza, massima accessibilità meccanica, migliore distribuzione dei pesi, oltre alla possibilità di poter montare il gruppo propulsore disassato rispetto alla mezzeria della moto così da poter installare cerchi e pneumatici di sezione maggiorata adeguati all’uso agonistico. La struttura del bicilindrico era stata infatti definita in periodi in cui le potenze in gioco erano assai inferiori a quelle espresse dalle successive elaborazioni e in cui, conseguentemente, le gommature previste erano di sezione decisamente ridotta. La trasmissione ad albero, e la particolare disposizione degli organi sul bicilindrico lariano, non avrebbero permesso di risolvere il problema, a meno di ricorrere a un simile stratagemma. L’assenza di elementi strutturali al di sopra del propulsore, inoltre, permise di collocare quest’ultimo il più in alto possibile senza alzare sensibilmente il baricentro dato che il telaio si sviluppava all’interno della V. Ciò per ottenere la maggior luce a terra possibile in vista dei sempre maggiori angoli di piega ottenibili in gara con le moderne coperture. La motocicletta sviluppata da Wittner era molto più che una special: si trattava chiaramente del futuro della Moto Guzzi ossia la strada da seguire per rilanciare in campo sportivo e commerciale il blasone di Mandello del Lario. Fu per questo che la fabbrica in prima persona si interessò al progetto grazie allo stesso italo-argentino Alejandro de Tomaso, allora “gran capo” da quelle parti vicino al lago (capo che non sempre fu in grado di prendere le scelte migliori per la Casa). In questo caso però l’opportunità era evidente, alla luce degli enormi successi agonistici della moto americana. L’unico problema residuo per la moto del Dr. John era rappresentato da quello prestazionale. Come già riportato, infatti, i vecchi propulsori Le Mans necessitavano di elaborazioni piuttosto spinte per raggiungere prestazioni dignitose in gara (tra i 95 e i 120 Cv), ma a questo punto venivano a meno le dovute garanzie di affidabilità necessarie per la produzione di grande serie. La motocicletta doveva essere all’altezza delle concorrenti ed eventualmente fornire ulteriori margini di elaborazione in campo sportivo, anche perché la concorrenza era agguerrita e la ciclistica aveva tutto il potenziale per raggiungere grandi risultati. La strada da percorrere, mantenendo salda l’architettura classica dei grossi bicilindrici Guzzi, era quella dell’incremento del rendimento volumetrico del propulsore, principalmente attraverso l’adozione di una distribuzione plurivalvola e dell’iniezione elettronica. Le quattro valvole per cilindro avrebbero permesso di migliorare sensibilmente le prestazioni agli alti regimi, ammettendo il raggiungimento di valori di potenza elevati. Il problema principale era, allora, come conciliare la geometria del vecchio due valvole con le esigenze del nuovo quattro, dato che sarebbe stato assurdo mantenere il singolo albero a camme centrale con aste e bilancieri. L’Ingegner Todero, cui fu affidato l’oneroso compito della progettazione del nuovo propulsore, sviluppò dapprima un prototipo a doppio albero in testa: la soluzione più conveniente e immediata, che tuttavia mal si conciliava con i già notevoli ingombri trasversali del bicilindrico, il quale, in questo modo, cresceva in altezza elevando il baricentro dell’insieme. Per lasciare invariate le dimensioni complessive del gruppo propulsore, si ricorse allora a un sistema misto, complicato ma decisamente ingegnoso. I bilancieri e le aste dei vecchi motori rimasero, quasi a voler sottolineare la continuità col passato, ma ridotti ai minimi termini: i primi vennero chiaramente ridisegnati per azionare due valvole in più, mentre le aste divennero, nella sostanza, delle corte punterie. Infatti, gli assi a camme diventarono uno per ogni cilindro, posizionati “quasi” in testa, ovvero lateralmente alle valvole dentro la V dei cilindri, consentendo così di contenere l’altezza degli stessi. Tali alberi erano azionati da cinghie dentate secondo uno schema simile a quello definito da Taglioni per i motori Ducati, ovviamente però posizionate sul lato anteriore e alloggiate in due carter che rendevano immediatamente riconoscibile il propulsore rispetto a ogni creazione precedente. Quindi, la puleggia motrice delle due cinghie, onde contenere la lunghezza delle stesse e i problemi a questa connessi, era collegata all’albero motore con una cascata di ingranaggi, a chiudere la catena cinematica della distribuzione. Uno schema senza precedenti, che contemplava tre dei principali tipi di distribuzione comunemente utilizzati nella tecnica motoristica. La presenza delle cinghie e degli ingranaggi proponeva anche una maggiore facilità di manutenzione e registrazione, cosa sempre auspicabile su un motore sportivo. Sul fronte prestazionale, le piccole aste avevano un peso irrisorio, quindi trascurabile nel computo delle masse in moto alterno, anche agli alti regimi, consentendo di sfruttare le potenzialità delle 4 valvole e di raggiungere valori di potenza superiori. Le premesse erano ottime: un nuovo propulsore più potente e solo poco più pesante e ingombrante, senza bisogno di ulteriori modifiche alla meccanica. Fermo restando, infatti, che l’impostazione del motore doveva rimanere quella dei vecchi bicilindrici, la ricerca di migliori prestazioni avrebbe spinto verso l’adozione della trasmissione finale a catena. Tuttavia, anche Wittner, su tutte le sue realizzazioni, aveva sempre preferito mantenere l’originale complessa e pesante struttura ad albero cardanico. Apparentemente, questo poteva sembrare un controsenso su una moto sportiva, dato che la finale a catena offre maggior leggerezza, minor assorbimento di potenza insieme a un'estrema facilità e rapidità di manutenzione e nella variazione del rapporto finale (il che permette di adeguare il veicolo alle diverse condizioni di utilizzo e del circuito), ma il Dr. John aveva tutte le sue ragioni: anzitutto, i componenti originali erano qualitativamente validi e garantivano comunque una discreta affidabilità anche in pista, e poi egli aveva verificato come il rendimento di una tradizionale catena a rulli in presenza di elevata coppia motrice precipitasse sensibilmente dopo circa 30 minuti di utilizzo (andando a dissipare anche 15-20 cavalli), il che poteva essere tollerabile per gare brevi, ma era assolutamente inaccettabile per le gare di durata per cui l’ex dentista americano aveva progettato le sue moto. Altro capitolo, il sistema di scarico: Wittner aveva da sempre sostenuto che per fare andar forte una Guzzi bastava farla respirare meglio. In quest’ottica, la base delle sue preparazioni sportive era sempre stata l’abolizione del complesso di aspirazione e la revisione dello scarico, con particolare attenzione alla compensazione tra i due cilindri. Ecco perché, sin dai primi prototipi, si seguì lo schema delle moto da competizione, con particolare attenzione alla progettazione della scatola filtro, la cui presenza era obbligatoria sul futuro modello di grande serie. La genesi della Daytona era completata; iniziava la delicata fase dello sviluppo del prototipo sino alla presentazione del modello stradale definitivo, il cui ritardo sul mercato fu forse l’unica causa importante del tiepido successo decretato da parte del pubblico.